Martedì 17 dicembre 2024, ore 7:08

Mostre

Omaggio a Vivian Maier

di ELIANA SORMANI

Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier, è il titolo della mostra arrivata direttamente da New York coprodotta con il Grand Palais di Parigi nel 2021 e presentata per la stagione autunnale a Monza presso il Belvedere della Villa Reale in un incredibile e labirintico spazio che si affaccia sul grande parco della reggia brianzola. Più che una mostra è un omaggio a Vivian Maier, una fotografa destinata a rimanere invisibile, e che dopo essere stata casualmente scoperta nel 2007 da John Maloof, attraverso il suo ricco archivio di oltre 150.000 negativi nascosti in grandi valigie e bauli abbandonati in un magazzino, studiata per ben 15 anni da Anne Morin, è diventata una delle più importanti ed interessanti figure del mondo della street photography del XX secolo, costituendo una vera e propria rivoluzione nella storia della fotografia, in cui un’invisibile improvvisamente diviene un’icona.

La mostra, inaugurata a Monza il 17 ottobre e aperta fino al 26 gennaio 2025, presenta l’intero percorso artistico della Maier dal 1950 al 1994, ripercorrendo tutti i grandi temi affrontati dalla stessa nei 45 anni di lavoro, non solo attraverso 200 stampe in bianco e nero e a colori, di cui molte inedite, ma anche attraverso contact sheet (provini su carta), registrazioni audio originali con la voce della fotografa, filmati Super 8 (visibili per la prima volta), e una serie di oggetti, tra cui le sue mitiche macchine fotografiche Rolleiflex e Leica. Vivian Maier non nasce come fotografa professionista ma per tutta la sua vita svolge il lavoro di nanny, ovvero di tata, e per hobby ama fotografare chi le sta intorno, dai bambini che cura, alle persone che incontra durante i viaggi che fa come durante la sua vita di bambinaia, posando il suo sguardo molto attento sugli invisibili, sulle persone comuni, come in fondo è lei, così come sugli individui più importanti come possono essere i banchieri di Midtown o le donne dell’alta società, tracciando, con un occhio molto preciso e artistico un quadro eloquente di quello che è il mondo americano della seconda metà del Novecento. Vivian Maier nasce a New York nel 1926 da padre austriaco e madre francese. Dopo aver trascorso la sua infanzia in Francia, con la madre presso un’amica fotografa ritrattista molto affermata, dove probabilmente avviene il suo primo incontro con l’arte della fotografia, si trasferisce nel 1932 in America per riunirsi al padre e al fratello, nella speranza di una vita migliore che in realtà non arriverà mai. Si sposta in diverse città degli Stati Uniti, da New York a Los Angeles fino a Chicago, per cercare quella fortuna che riteneva essergli stata negata. Negli anni Quaranta, con i soldi ricavati dalla vendita di una proprietà di famiglia in Francia, acquista la sua prima macchina fotografica con cui inizia a dedicarsi a quella che per lei è una semplice passione, ma per la quale ha un innato talento capace di portarla a creare fotografie traboccanti di umanità, senso di umorismo e bellezza, in cui il gusto francese per una fotografia umanista e quello americano per la street photography si sintetizzano. A partire dal 1951 inizia a lavorare come bambinaia e con i soldi che guadagna riesce a finanziare il suo hobby per la fotografia.

Nella sua non esistenza, nella volontà di cancellazione di sé spinta dal desiderio di cercare la propria identità nasce la sua originalità, quello che è il capitolo più complesso della sua esistenza, che si concretizza soprattutto nei suoi autoritratti, di cui in 45 anni di lavoro si stima ne realizzi più o meno 500. Quando viene scoperta la sua opera destinata all’oblio, i selfie esistono da quasi 20 anni e sono un segno della crisi d’identità dell’individuo, mentre per lei i suoi autoscatti (antenati dei selfie) erano un modo per affermare la sua presenza in una società che in realtà non la vedeva. L’archi tettura della mostra organizzata in nove sezioni tematiche, si apre proprio con una sezione dal titolo “Vivian sono io” dedicata ai suoi autoscatti, per poi svilupparsi attraverso quelli che sono stati i temi principali della sua opera, a partire dal mondo della strada, dove ella andava a cercare “lo straordinario nell’ordinario”, immortalando i ritratti delle persone come lei, prima a New York (tra 1951-56) e poi a Chicago, dove gli invisibili a loro insaputa rimangono impressi nei suoi scatti per l’e ternità; l’infanzia (ottava sezione della mostra) che la Maier vive come il tempo dell’immaginazione; le forme e le astrazioni. Realizzata da Vertigo Syndrome la mostra è curata da Anne Morin, che per circa 15 anni ha studiato il lavoro di Vivian Maier dopo che nel 2011 a New York le vengono mostrate alcune foto dell’arti sta. Cogliendone immediatamente la straordinarietà, decide di renderle omaggio studiando tutte le sue fotografie, i suoi filmati, i suoi oggetti, le sue collezioni, passando dagli scontrini della spesa fino ai suoi souvenir, conservati dalla fotografa in modo maniacale, tanto da farla definire “una collezionista del mondo”. La mostra tuttavia non vuole parlare tanto della vita della Maier, ma piuttosto del suo valore artistico lasciando parlare le sue fotografie, disposte come volessero raccontare di un viaggio. Un’ impressione rafforzata anche dal suggestivo allestimento diviso a tappe, in cui a fare da supporto alle fotografie sono pannelli a forma di grandi valigie, proprio come quelle in cui è stato ritrovato tutto il materiale fotografico dell’artista. Interessante è l’at tenzione della Maier verso le piccole storie di soggetti che vivono alla periferia del mondo, che non appartengono al sogno americano, e che non hanno un ruolo nella costruzione del sogno americano, i senza lavoro, i senza una dimora, gli emarginati. Le loro foto, a cui è dedicata la terza sezione dell’allesti mento, sono ricche di giochi di sguardi, senza contrasti di chiaro scuri, da cui emerge la dignità della povertà, osservata con gli occhi molto attenti della fotografa che si concentra su tanti piccoli dettagli, come ad esempio le mani, simbolo della produttività. Di pregio sono una serie di miniatura, vintage, presenti in mostra (tra le sue foto sono state ritrovate ben 5000 stampe vintage dell’ep oca) e una serie di rullini (ne sono stati rinvenuti oltre 2500) che sono stati sviluppati a distanza di 40 anni addirittura dai laboratori della Cia, gli unici in grado di riportarli alla loro originale condizione. Dal 1965 la Maier inizia a dedicarsi infatti anche ai filmati usando il cinema come mezzo per la fotografia. La sezione dal titolo “Il super 8 e la vivace trama umana degli spazi metropolitani” è dedicata ai filmati che gira con la sua macchina da presa Super 8 a partire dagli anni sessanta, riprendendo tutto ciò le passa davanti, che poi, se di suo interesse, viene immortalato con

uno scatto con la sua Rolleiflex. Tra il 1956 e il 1967 la Maier vive il periodo più felice della sua vita al servizio dei coniugi Gensburg. Trasferitasi con loro sulle rive del lago Michigan a Chicago riesce a toccare la felicità da vicino e con essa la sua fotografia tocca l’a pogeo grazie anche all’uso del colore. Il colore non è sicuramente per la Maier il miglior linguaggio, ma è piuttosto per lei un gioco, che la fa divertire, è una digressione molto interessante all’interno del suo linguaggio. Una volta tuttavia cresciuti e diventati autonomi i figli dei Gensburg la Meier è costretta a lasciare la famiglia e piano piano nel suo linguaggio la figura si va a sfumare e con essa anche la funzione narrativa della sua fotografia.

Nell’ultima sezione della mostra “L’astratto vicino” infatti i suoi scatti si fanno più astratti e poetici, attraverso i primi piani degli oggetti e le inquadrature dei dettagli che fanno perdere i contorni alle immagini rendendole quasi surreali. Si racconta che nelle ultime foto Vivian Maier fosse solita prendere un giornale appoggiarlo a terra e scattargli in modo ossessivo una serie di fotografie fino all’alienazione.

Per dare uno sguardo al contemporaneo e una lettura “sugge stiva e diversa” alla mostra all’ingresso l’allestimento propone otto opere ad acquarello (in originale e riprodotte in grande formato sulle pareti) di Nicola Magrin, artista noto per i suoi paesaggi naturali. Attraverso l’uso dell’inchiostro nero all’acqua, l’artista, ispirandosi alla vita e all’opera della fotografa, ripropone in forma poetica e suggestiva alcuni temi e emozioni che Vivian Maier a suo tempo ha proposto con la sua camera meccanica.

La mostra risulta dall’inizio alla fine molto coinvolgente e adatta sia a un visitatore esperto come ad un neofita, capace di incuriosire e appassionare adulti e bambini, unica e speciale, tanto che se il visitatore ne esce insoddisfatto può chiedere il rimborso del biglietto, come la società allestitrice Vertigo Syndrome è solita fare. Cosa che sicuramente non accadrà vista la bellezza del percorso, la scenografia e le attività laboratoriali proposte, tra cui persino un’espe rienza di realtà virtuale che permette ai visitatori di fotografare con la stessa Rolex usata da Vivian Maier, facendo rivivere le sue stesse emozioni.

Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier, Belvedere-Reggia di Monza, 17.10.2024/26.01.2025

( 12 dicembre 2024 )

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