Il 21 gennaio 1969 si spegneva Giovanni Comisso, trevigiano, una delle voci più irripetibili della letteratura italiana novecentesca, troppo gravida di appartenenze, “gruppi”, ideologie. Lui invece rifuggiva ogni contiguità. Fondamentale l’incontro con Filippo De Pisis. Rammenterà Comisso: «Dopo la mia amicizia con lo scultore Arturo Martini, questa era un’altra grande amicizia che veniva a deliziarmi e a legarmi alla mia passione per l’arte. (…) Quel tempo era per me come per gli uccelli emigratori, quello che precede la grande trasvolata e in cui si cercano i compagni per vincere le difficoltà della rotta».
E di trasvolate, Comisso ne fece parecchie. La Grande Guerra lo vide ufficiale del Genio Telegrafisti sui fronti principali del nord-ovest. A Fiume diserta e si unisce alle truppe ribelli, per arricchirsi della frequentazione di un’altra personalità memorabile: Guido Keller, aviatore della squadriglia di Francesco Baracca. Di lui Comisso annota: «Lo riconoscevo superiore a me e capace di imprimermi un nuovo senso della vita. Moltissima mia infantilità e moltissima mia tendenza borghese, quasi superate colle mie esperienze di guerra, nella mia giornaliera vicinanza a quest’uomo audacissimo, si staccarono definitivamente da me». Insieme Keller viaggia in barca tra le isole del Quarnaro e lo riporta in “Il porto dell’amore”. Con altri legionari precorre tematiche hippy fondando il Movimento Yoga, con una rivista di ispirazione anarchica e utopista. Sulla testata, paradossalmente, campeggiano una svastica, simbolo del sole, ma in senso antiorario, come quella nazista, e la scritta: “Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione”. Uscirà per sole quattro settimane. Gli intenti: «Strane forme di vitalità in ogni movimento, in ogni ambiente, ecco il nostro programma. […] Amare i nostri vizi come le nostre virtù, come ci consiglia Nietzsche. Muoversi. Vivere. Distruggere. Creare. Come scopo. Non per un ideale, ma per esser ciò l’ideale».
L’arco temporale in cui prosegue la sua trasvolata non è più soltanto geografico. Dal fascismo molto soggettivo, per nulla marziale o retorico, alla ricerca di radici che Guido Piovene definirà il “venetismo” di Comisso. Fino allo sbocco anagrafico negli anni ’60, quando pubblica “La donna del lago”, antesignano di tanti thriller d’autore, trasposto in un film di successo diretto nel 1965 da Luigi Bazzoni e Franco Rossellini, nipote di Roberto, dopo che invano aveva cercato di realizzarlo Mario Soldati.
La summa creativa di Commisso sta proprio nel labirinto psicologico della vicenda narrata. L’intreccio di affetti traditi, ideali e solipsismo valgono quali coordinate di una narrazione che non cede ad alcun incentivo provvisorio, per divenire analisi epocale di una parte della storia vissuta sulla propria pelle.