Morto Marc Augé, “non luogo” a procedere? Ossia nessun’altra tappa nella lettura antropologica del mondo che compone la cosiddetta civiltà avanzata? A lui si deve la definizione più esatta delle nuove forme dell’abitare. Designa le strutture dell’esistenza post-moderna. Aeroporti, autostrade e, naturalmente, ipermercati. Si tratta di interventi umani sullo spazio, che sostituiscono l’artificiale al naturale. Sembrerebbe il predominio della civiltà sull’arbitrio degli elementi. Soltanto che il modello imposto è quello della spersonalizzazione, della distanza fra gli individui. Fra le corsie colme di beni dell'ipernercato ognuno diventa per l'altro un “familiar stranger”, un estraneo familiare, come si dice a New York di quelli che percorrono insieme qualche fermata della metropolitana. E nessuno sa cosa può albergare nel cuore di tenebra del proprio simile. Viene allora la nostalgia del negozietto di quartiere, del pizzicagnolo dove non solo si è conosciuti, ma anche riconosciuti ad ogni compera, magari pagando a fine mese, non con la carta di credito o il bancomat.
Ma le analisi di Augé non contemperavano l’emotività: «L'antropologo parla di quel che ha sotto gli occhi: città e campagne, colonizzatori e colonizzati, ricchi e poveri, indigeni e immigrati, uomini e donne; e parla, ancor più, di tutto ciò che li unisce e li contrappone, di tutto ciò che li collega e degli effetti indotti da questi modi di relazione».
Di più, per sfatare ogni residuo dubbio di conservatorismo nella sua visione dei non luoghi: «L’attesa dell’ineluttabile esercita un fascino specifico, ma nasce da una lettura retrospettiva della storia che nega l’esistenza del futuro come apertura sul radicalmente nuovo».
Con Marc Augé, quindi, si perde una voce essenziale per mediare tra la percezione della realtà e le introiezioni che ultimamente stanno provocando pericolose spinte regressive.
E dire che, al contrario di Mike Davis e Zigmunt Baumann, lui basava le proprie deduzioni non tanto e non solo sull’urbanistica evoluta dell’occidente bensì sulle lunghe osservazioni compiute in Africa e comunque lontano dal “primo mondo”.
Non luoghi soprattutto le periferie, sulle quali dichiarò l’architetto Renzo Piano in un’intervista: «Quando le periferie diventano luogo di degrado, c'è qualcosa di sbagliato nell’idea che le ha fatte nascere. È sbagliato volerne fare dei semplici dormitori o dei ghetti di lusso, bisogna ripensare alle periferie come e veri e propri spazi multifunzionali: piazze e giardini che siano luoghi di incontro. E se le fabbriche chiudono, trasformiamo le periferie in fabbriche di idee, in luogo di cultura». Sono probabilmente i sogni dei cittadini metropolitani che, si ritrovano sotto casa i “tossic park”. Quanto all'errore di partenza, ravvisato da Piano, lo mostrò in diretta Francesco Rosi nel film “Le mani sulla città”, dove c'era allo stato nascente che poi, di nuovo, Roberto Saviano avrebbe descritto in “Gomorra”.
Sull’ipotesi di riconvertire in un ciclo virtuoso il raggelante panorama delle periferie, l'ottimismo veniva smorzato dallo scrittore inglese James G. Ballard, che ne ha denunciato l’involuzione tribale di quelle ricche e in romanzi come “Il condominio”, “Millennium People” e “Regno a venire”. La trama non cambia. Gruppi di individui civilizzati e benestanti regrediscono alla stato selvaggio per l'incapacità di rapportarsi e comunicare.
Marc Augé aveva una risposta inoppugnabile per tutto questo: «Essere contemporanei significa porre l’accento su quanto, nel presente, delinea qualcosa del futuro».