Ma Gesù era Dio o era matto? La fede dirime. C'è, però, fede e fede. Ce n'è una pirotecnica che crede nei miracoli e ne pretende (Giuda nell'interpretazione iconoclasta di Amos Oz) e un'altra che rischiara i giorni perché aiuta a considerare la vita in un orizzonte diverso, più alto e più ampio del vicolo cieco della quotidianità (Antonio Spadaro, Una trama divina).
E se, invece, Gesù era solo un matto? Allora era matto come Mattio Lovat, e come lui aveva le sue ragioni... divine. Di matti Sebastiano Vassalli ne ha raccontati tanti. Da Dino Campana, il folle di Marradi matto perché poeta, ad Antonia, la strega de La chimera condannata al rogo perché troppo bella. Mattio voleva salvare il mondo, come Gesù. Finì in manicomio, che è una croce anche quello.
Ci sembra, quindi, bello ed opportuno, e ci commuove, riproporre ampi stralci di una nostra intervista a Sebastiano Vassalli in occasione della pubblicazione del suo romanzo Marco e Mattio . Correva l'anno 1992. Era di maggio.
Quella volta lì non ci vedemmo a Pisnengo, frazione di Novara, nella vecchia canonica riconvertita in abitazione, suggestiva ma senza termosifoni, sottolineava Vassalli, in aperta campagna, con un orto da lui molto curato, un camino e alle pareti i santini colorati e naïf dell'élite culturale del tempo, tanti ex voto per ricordare lo scampato pericolo di essersi sottratto al loro conformismo protervo, vanitoso e inconcludente. «Chiunque voglia scrivere seriamente - diceva convinto Vassalli - ha bisogno di un posto come questo. E deve trovarlo: anche nel cuore di Parigi».
Per parlare di Marco e Mattio ci vedemmo a Torino, al Salone del libro, doveroso dazio la sua presenza lì per affiancare l'editore nella promozione del libro appena pubblicato.
Sarà che per i romanzi e gli autori che abbiamo amato e ci hanno formato è come per le canzoni della giovinezza, sempre le più belle, a prescindere, ma di Sebastiano Vassalli - quarant'anni dopo averlo letto e incontrato la prima volta, La notte della cometa , 1984 - noi continuiamo a pensare che sia uno dei più grandi narratori italiani. Nel podio del nostro canone. Per noi pari a Dostoevskij. Ogni comparazione è un velleitario, sciocco e presuntuoso azzardo. Peraltro inutile.
Utile, invece, ricordare la sua scrittura rigogliosa, impastata tanto di umile e laborioso artigianato quanto di capacità lucida e visionaria di lettura del nostro tempo in un quadro epocale. C'era sempre nelle sue parole un'ansia di verità, una febbrile inquietudine che lo portavano di slancio al di là del presente verso una considerazione senza sconti ma affettuosa e complessiva della fragilità umana.
Perciò le sue parole sono scolpite in modo indelebile nei nostri ricordi.
Si chiamava Mattio Lovat e voleva salvare il mondo, che in quel lontano 1805 tumultuosamente precipitava nel nuovo. Si chiamava Mattio Lovat e voleva morire in croce come Gesù per redimere gli uomini dal peccato capitale della modernità. Finì, invece, in manicomio nell'isola di San Servolo a Venezia e fu uno dei primi casi di pazzia studiati dalla psichiatria moderna.
Matto, dunque. Vassalli, però, alla scienza medica credeva poco e perciò nel suo romanzo raccontò che Mattio era solo ammalato di pellagra e cioè di quel mal di polenta che tante vittime aveva mietuto tra i contadini nei secoli bui della fame. Ma oltre che narratore attento al vero storico, Vassalli era anche poeta, perciò gli interessava ciò che gli uomini sentono dentro e quindi raccontandone l'avventurosa e toccante storia scrisse che Mattio in quel suo sogno ci credeva davvero. E meritava rispetto. Non solo: ma con la sua prosa - limpida, asciutta e rigorosa - come in altri suoi romanzi anche in Marco e Mattio insinuò il dubbio che i matti non siano poi tali e che il mondo, alla fine dei conti, lo mandano avanti loro. Il sacrificio di Mattio per lui non era stato affatto vano.
Ci disse, infatti, in quell'intervista Sebastiano Vassalli: «La follia è l'elemento dinamico dell'umanità. Le malattie mentali in quanto patologia costituiscono una minima percentuale dell'universo dei matti.
Il primo dei quali sicuramente è stato quello che, milioni di anni addietro, quando tutti camminavano a quattro gambe, cominciò invece a camminare solo su due. Noi oggi crediamo in una redenzione avvenuta duemila anni fa. Molti al mondo credono che realmente essa abbia raddrizzato le sorti dell'umanità. Mattio, che ha ricompiuto la redenzione, è un matto. Ma chi ci garantisce che anche il primo non lo fosse? Anzi, sicuramente lo era. E specifico che quest'affermazione non è per me bestemmia ma riconoscimento. Lascerei, quindi, la cosa un po' sospesa, indeterminata.
Siamo nell'ambito delle cose che si possono credere o meno. Io rispetto chi crede nella prima redenzione e chiedo di essere rispettato perché, se io credo in quella, credo anche nella seconda. E credo anche che ce ne saranno altre e che ciò sia indispensabile».
- Ne La chimera - gli ricordammo lei ha affrontato il Seicento, nel quale si sarebbe formato il carattere nazionale degli italiani. Ora, invece, l'età napoleonica. Per quali aspetti - chiedemmo - gli anni tra Sette e Ottocento possono aiutarci a capire quel che sta accadendo oggi?
Ci rispose così: «Fatti del nostro tempo che ci sembrano enormi come, per esempio, la caduta del muro di Berlino o la disgregazione dell'impero sovietico - non sono in definitiva che scosse di assestamento di quel terremoto originario che ha colpito l'Europa tra Sette e Ottocento e che ha rappresentato la fine di un mondo in cui tutto si poneva sotto il segno della religione e non esistevano né la politica né la scienza né la psichiatria né i manicomi. I matti, se tutto andava bene, erano soltanto degli indemoniati, come i bambini discoli che venivano raddrizzati dai frati. Si crea, dunque, in quegli anni uno spartiacque importantissimo che è all'origine di tutti i movimenti, di tutte le convulsioni venute dopo».
- Come il marxismo... (suggerimmo) «Certo. Il discorso è sempre quello, quello venuto fuori dalla fine di Venezia, quello antico delle illusioni. Allora gli intellettuali si illusero in Napoleone. Noi invece ci siamo illusi nel marxismo e cioè ci siamo illusi
che nel gioco del dare e dell'avere si potesse introdurre un principio di scientificità. Piccole illusioni che si inscrivono nella generale contrapposizione tra il Bene e il Male, in quest'eterna lacerazione che si ripropone continuamente nella storia umana, in questa lotta tra buoni e cattivi che poi, in definitiva, è solo uno scontro tra matti.
Marco e Mattio come Faust e Mefistofele: due poveri matti che si trovano alla fine nel posto giusto per loro, nell'isoletta di San Servolo che, con il suo manicomio e lo spettacolo meraviglioso di Venezia, è per me il simbolo della condizione umana e della sua povera lotta tra buoni e cattivi. Noi continueremo ancora ad illuderci, nonostante tutto. È indispensabile. Altrimenti l'uomo non potrebbe andare avanti, si intristirebbe e invece continuerà a progredire. A spese dei matti: che seminano illusioni e le vivono e ne sono le prime vittime.
In questo senso, però, matti lo siamo più o meno tutti.» - Ma di questa continua altalena di illusioni e delusioni alla fine cosa resta?
«Nell'ultima pagina de La chimera io cito un verso in cui Gongora dice che dell'uomo dopo la morte resta terra, polvere, fumo, ombra, nulla. Gongora è un pessimista. Io, nonostante le mie storie non abbiano mai un buon fine, credo di essere straordinariamente ottimista perché penso che di un uomo non resta solo terra, polvere, fumo, ombra, nulla ma qualche volta anche la sua storia. E non è poco.» No, non è poco quello che resta e resterà di Sebastiano Vassalli, il nostro babbo matto.