Non solo legge elettorale e banche. Ci sono anche molti dossier aperti che riguardano più direttamente il sindacato e che il Parlamento dovrà affrontare dopo la bocciatura della riforma costituzionale. Riforma che ad esempio riportava in capo allo Stato il tema dell'apprendistato e delle politiche attive. La vittoria del No lascia questa competenza in capo alle Regioni, mentre il Jobs Act istituiva una Agenzia nazionale (Anpal), quindi di competenza statale.
Quanto al Cnel non occorrono leggi, anche se bisognerà nominare di nuovo i suoi 64 membri e il Presidente. Dopo la presentazione della riforma costituzionale in Parlamento, nell'aprile 2014, essi si sono tutti dimessi, compreso il presidente Antonio Marzano, mentre era partito un piano per ricollocare i dipendenti in altre strutture dello Stato. Anche su questo punto bisognerà decidere se favorire un ”contro-esodo” o assumere nuovo personale.
Poi c'e' il caso delle Province. Dal 2012 tutti dicono di volerle abrogare, e dopo vari tentativi il governo Letta ha varato la legge Delrio che le trasforma in Enti di Secondo livello (composti dai sindaci), prevedendo la loro cancellazione con una riforma costituzionale ("in attesa della riforma costituzionale del titolo V e delle relative norme di attuazione"). Le norme transitorie della legge Delrio prevedono un graduale passaggio alle Regioni delle competenze e dei dipendenti. Il No alla riforma obbliga sul piano politico a decidere se ripristinare le Province come Enti politici, con Consigli, Giunte e Presidenti eletti dai cittadini, anche se possono rimanere come Enti di secondo livello, con apposite norme che le stabilizzino.
Sul fronte, caldissimo, degli statali in ballo c'è il rinnovo del contratto, atteso da sette lunghi anni. L'accordo politico, siglato da governo e sindacati il 30 novembre, prevede due punti principali: gli 85 euro di aumento contrattuale, per cui serve anche la manovra 2018 (altrimenti mancano all'appello 1,7 miliardi solo per gli statali in senso stretto) e la modifica della legge Brunetta, che divide il pubblico impiego in fasce di merito, lasciando a secco di premi un quarto dei dipendenti in ciascuna amministrazione statale. L'accordo era anche la base su cui stendere il cosiddetto atto di indirizzo, ovvero il fischio ufficiale per la riapertura della contrattazione. L'atto deve essere firmato dal Ministro e inviato all'Aran, l'agenzia che rappresenta il governo nei negoziati. Tutti lascia presagire uno stallo. Sempre sul fronte della Pubblica amministrazione c’è poi lo ”schiaffo” arrivato dalla Corte Costituzionale sulla riforma Madia, con i decreti attuativi anti-furbetti e sulle partecipate da conformare alla sentenza della consulta, oltre ai provvedimenti che ancora mancano, tra cui il Testo Unico del lavoro pubblico che si intreccia al rinnovo dei contratti, il taglio delle prefetture e la revisione dei poteri del premier. Resta in piedi anche la questione Ilva. Nei giorni scorsi era esplosa la polemica dopo lo stop a un emendamento alla legge di bilancio che destinava 50 milioni per l'emergenza sanitaria di Taranto: il premier Renzi aveva sollevato il governo da ogni responsabilità sostenendo che l’emendamento era stato dichiarato inammissibile dalla commissione Bilancio. Poi è stato annunciato l'accordo tra l'Ilva e la famiglia Riva che porterà 1,3 miliardi per il risanamento ambientale. Un accordo che spiana la strada per la fase finale della procedura di cessione degli asset del gruppo siderurgico.