Da un certo effetto confrontare i toni arrembanti degli ultimi mesi, che in vista delle elezioni europee dello scorso giugno preannunciavano una sferzata a destra degli equilibri politici dell’Europa, con i risultati del voto del Parlamento Europeo del 18 luglio scorso. Che, ribadendo alla guida della Commissione Ursula Von der Leyen, hanno di fatto confermato l’equilibrio politico consolidato a livello europeo. Costituito dall’asse tra popolari, socialisti e liberali, con l’innesto questa volta, rivelatosi determinante, anche dei verdi, che hanno consentito a Von der Leyen di neutralizzare gli effetti dei franchi tiratori presenti nella sua maggioranza. D’altra parte, già i risultati del voto di giugno avevano mostrato che il preannunciato vento di destra si era derubricato in una più semplice crescita dei consensi. Non tale, tuttavia, da scompaginare i tradizionali equilibri della maggioranza del Parlamento europeo. Come invece una certa narrazione aveva pronosticato alla vigilia del voto. La destra è senz’altro cresciuta, ma è rimasta minoritaria, dando prova, per altro, di essere anche divisa al suo interno. Il vero vincitore delle ultime elezioni europee, invece, è stato il partito popolare europeo. E l’asse politico che ha riconfermato la Von der Leyen alla guida della Commissione ruota proprio intorno a quell’azionista di maggioranza. Numericamente, i consensi verso le formazioni di destra si sono tradotti, nel Parlamento europeo, nell’esistenza di tre gruppi politici diversi, con differenze significative tra loro. A conferma del fatto che quando si parla di destra, si devono considerare tante destre. Accanto al gruppo dei conservatori e riformisti, a cui aderisce Fratelli d’Italia e che è presieduto dalla premier Meloni, complice alcune importanti defezioni subite, come quella dei parlamentari spagnoli di Vox, si è costituito il più nutrito gruppo dei Patrioti per l’Europa, voluto dall’ungherese Orban e a cui hanno aderito sia gli eletti del Rassemblement National francese, sia quelli della Lega. I patrioti per l’Europa, così come il gruppo più estremo costituitosi alla loro destra, denominato Europa delle Nazioni sovrane, di natura fortemente nazionalistica, esprimono entrambi posizioni euroscettiche, con venature filo putiniane al loro interno e sono stati esclusi dalla possibilità di costituire una maggioranza all’interno del Parlamento. Anche perché manifestano una posizione di sostanziale fastidio e di totale insofferenza nei confronti delle istituzioni federative europee. Né tantomeno i conservatori di Ecr, la componente più filoatlantica e dialogante, espressione del partito della premier italiana, sono stati in grado si spostare il precedente equilibrio politico, che alla fine è risultato maggioritario. Di conseguenza, il voto contrario a Von der Leyen di Fratelli d’Italia, rimasto in bilico fino all’ultimo, è scaturito da un’esigenza di salvaguardia del suo posizionamento, nel solco dell’obiettivo di non avere “alcun nemico a destra”. In questo modo, è stata scongiurata l’accusa di “inciucio” che Salvini già aveva cominciato a muovere, nel caso in cui i conservatori di Fratelli d’Italia avessero votato il presidente della Commissione insieme ai socialisti e ai verdi. Hanno inoltre inciso, nel voto contrario a Von der Leyen, anche la volontà di non far perdere a Fratelli d’Italia il profilo di partito “di lotta e di governo”, tanto cara alla sua leader, oltre al desiderio di non contrapporsi al rinnovato vento sovranista che, a livello nazionale, spira forte sia in Francia, sia negli Stati Uniti. Dunque, nell’inedito che si è andato compiendo (prima del 18 luglio scorso, nessuno dei partiti dei vari presidenti del Consiglio che si sono succeduti nel tempo in Italia aveva votato contro il presidente della Commissione europea), è prevalsa in Meloni la logica di presidente di partito, a svantaggio di quella di Presidente del Consiglio dell’Italia. Come ha sintetizzato Sabino Cassese sul Corriere della Sera (19 luglio 2024), “nell’intreccio tra coerenza di parte e interesse nazionale è prevalsa la prima, così negando la componente nazionalistica propria di Fratelli d’Italia, mentre l’incoerenza politica sarebbe stata coerente con l’interesse nazionale”. Naturalmente, hanno inciso sulla scelta le differenze di vedute sui principali punti delle linee programmatiche enunciate da Von der Leyen. In particolare, lo snodo centrale del contendere è stato il Green Deal. Sulla declinazione del quale il partito della premier non ha rintracciato quella discontinuità che rivendicava. Il punto è particolarmente rilevante, data la riconferma dell’impegno a ridurre, entro il 2040, le emissioni nocive del 90% rispetto ai livelli del 1990. E impatta soprattutto sui quantitativi delle risorse necessarie a sostenere la transizione ecologica, oltre che sulle modalità con cui reperirle. Aspetti assai rilevanti, in quanto condizioneranno il posizionamento competitivo che l’Unione Europea avrà nel prossimo decennio rispetto ai suoi due grandi competitor, Cina e Stati Uniti. Non a caso è previsto che la nuova declinazione della transizione verde si traduca in un Clean Industrial Deal, al fine di coniugare gli obiettivi ambientali con un maggior sostegno all’industria. Se si considera che per realizzare i principali punti programmatici della nuova legislatura europea (transizione verde, digitalizzazione, rafforzamento della difesa europea), la Banca centrale europea ha stimato la necessità di quasi mille miliardi di euro all’anno nel periodo 2025-2031, si comprende quanto sarà determinante definire le modalità con cui reperire queste risorse. In tal senso, la creazione del debito comune a livello europeo appare come l’unica condizione per rendere sostenibile l’attuazione del vasto programma di transizione definito. Nella consapevolezza che il ripristino del patto di stabilità non potrà ampliare i margini di manovra nelle finanze dei singoli stati membri.
Ora si discute degli effetti che il mancato sostegno a Ursula von der Leyen avrà sul peso dell’Italia in Europa, e sulla sua capacità di incidere nei delicati equilibri dell’Unione. Il rimanere fuori dalla “cabina di regia” non dovrebbe avere conseguenze sulla rilevanza del commissario che l’Italia otterrà, in virtù del suo ruolo di stato fondatore e di terza economia del continente. Per altro, in Europa, le maggioranze tendono a formarsi sui singoli dossier e su tale caratteristica il partito della premier punta per poter affermare la sua influenza negli indirizzi che di volta in volta verranno presi. Tuttavia, proprio per effetto del voto contrario di giovedì scorso, non solo salterà la vicepresidenza esecutiva, ma potrebbero esserci conseguenze negative anche sull’efficacia generale della presenza italiana nella futura vita delle istituzioni europee, come ha paventato Romano Prodi (Il Messaggero, 20 luglio 2024): dato che le scelte più importanti vengono sempre prese nell’ambito dei gruppi politici che, pur con notevoli differenze, condividono lo stesso percorso.
Vedremo nelle prossime settimane se e come si verificheranno queste previsioni. Di certo, se la pacchia per l’’Europa non sembra ancora finita, c’è da augurarsi, almeno, che da ciò non ne debbano subire nocumento gli interessi dell’Italia.
Saverio Scarpellino
(Economista)