A poche ore dalle elezioni europee già a Bruxelles si prova a fare piani per il post voto. Chiuse le urne, si intensificherà il complesso risiko politico che porterà al rinnovo dei vertici delle istituzioni comunitarie, un'operazione da cui dipenderà l'orientamento politico dell'Ue nei prossimi cinque anni. E la domanda che molti si pongono (e a cui nessuno sa rispondere) è: quante chances ha Ursula von der Leyen di centrare il bis alla presidenza della Commissione? Come è facile intuire, il weekend elettorale non si chiuderà in questa settimana ma segnerà solo il primo passo di un rimescolamento molto più ampio delle carte che distribuiranno il potere politico nell'Unione. In gergo si parla di nuovo ciclo istituzionale: in sostanza, oltre all'Eurocamera di Strasburgo si rinnoverà anche il collegio della Commissione- inclusi i due ruoli più importanti, cioè il presidente e l'Alto rappresentante per la politica estera- nonché la presidenza del Consiglio europeo.
È un gioco di equilibrismo per bilanciare il peso delle varie famiglie politiche e degli stessi Stati membri, un complesso risiko per determinare chi ottiene cosa e a spese di chi. Il top job più ambito e dal quale dipendono poi anche parecchi degli incastri successivi è proprio quello del capo dell'esecutivo comunitario, organo che tra le altre cose detiene il monopolio dell'iniziativa legislativa. Da quando von der Leyen ha annunciato la propria candidatura per un secondo mandato lo scorso febbraio, è sembrata la più solida tra gli Spitzenkandidaten dei partiti europei (i "candidati di punta" per la presidenza della Commissione). Ma col passare delle settimane è apparso sempre più evidente che la sua riconferma al timone del Berlaymont non è affatto scontata. Prima di tutto, la presidente uscente deve ottenere la nomina dai capi di Stato o di governo dei Ventisette che siedono al Consiglio europeo. Questa, almeno sulla carta, non dovrebbe essere un'impresa impossibile: il Partito popolare europeo (Ppe) di centro-destra da cui proviene controlla undici Paesi, una buona base di partenza per raggiungere la maggioranza qualificata del 55% degli Stati membri (cioè una quindicina) che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell'Unione. Ma sarà il Parlamento europeo a dare a von der Leyen i maggiori grattacapo.
Per ottenere di nuovo il suo incarico attuale, la Kandidatin dei Popolari avrà bisogno di 361 voti, cioè la maggioranza assoluta (50% più uno) dei 720 membri dell'Aula. Nel 2019, von der Leyen ottenne l'incarico con un margine di soli nove voti. Stando alle ultime proiezioni di qualche giorno fa, la grande coalizione che l'ha sostenuta in questo mandato dovrebbe superare agevolmente quella soglia: sommando i seggi di Popolari (Ppe), Socialisti (S&D) e liberali (Renew Europe) si arriva circa a quota 390. Tuttavia, non si tratta di una certezza matematica. Siccome gli eurodeputati votano a scrutinio segreto, von der Leyen potrebbe venire disarcionata se, come previsto da diversi analisti, in questi tre gruppi il tasso di "ribelli" (o franchi tiratori, per dirla all'italiana) supererà il 10%. In quel caso, la soglia dei 361 voti si allontanerebbe e alla presidente in pectore servirà l'appoggio di altri parlamentari: un'ipotesi è quella della "continuità" rispetto agli ultimi cinque anni, con von der Leyen che cercherà di farsi sostenere anche dai Verdi.
Esiste però anche un'altra opzione sulla quale gli osservatori si stanno interrogando.
Si tratta di un'eventuale asse politico tra Ppe e Ecr, il gruppo dei Conservatori e riformisti guidati dalla premier italiana Giorgia Meloni, alla collaborazione con la quale von der Leyen ha aperto esplicitamente la porta nelle ultime settimane. Ma se da un lato non può dirsi sicuro il sostegno di molte delegazioni dell'Ecr (c'è il rischio che votino a favore solo i meloniani, che dovrebbero essere poco più di una ventina), dall'altro lato c'è la possibilità molto più reale (e molto più pesante in termini numerici) che strizzare l'occhiolino troppo a destra alieni il supporto degli alleati europeisti moderati. Questo almeno è quanto stanno ribadendo da giorni molti esponenti dei Socialisti, dei liberali e dei Verdi, i quali hanno sottoscritto un impegno a non collaborare con le forze di estrema destra a nessun livello, né domestico né europeo. In realtà sono stati proprio i liberali olandesi a infrangere questo accordo accettando di sedersi al governo con Geert Wilders, ma potrebbero pagare questa scelta con l'espulsione dal gruppo di Renew a Strasburgo.
Ad ogni modo, appare sempre più evidente che, se von der Leyen vuole rimanere al comando del Berlaymont per altri cinque anni, dovrà convincere ancora una volta i suoi partner tradizionali. E chiudere quindi quella porta che lei stessa aveva aperto alla destra radicale: con questa mossa non si assicurerà automaticamente i 361 "sì" che le serviranno, ma si avvicinerà molto di più a quel risultato di quanto non possa farlo corteggiando le destre europee e perdendo di conseguenza Socialisti, Verdi e una grossa fetta dei liberali. E attirando probabilmente anche il fuoco amico di una parte dei suoi.
Rodolfo Ricci