II tempo che stringe, l'ombra dei veti incrociati, e l'incognita del tutto o niente sul futuro della governance economica europea. La sfida vitale della riforma del Patto di stabilità giunge all'ora della verità e, dopo mesi di trattative serrate, il faccia a faccia tra i ministri dell'Economia europei convocato in via straordinaria la sera del 7 dicembre darà un'indicazione chiara sulle reali possibilità di trovare un accordo entro la fine dell'anno. L'intesa politica aprirebbe la strada a un graduale passaggio verso le nuove norme, scongiurando l'eterno ritorno ai vecchi precetti votati all'austerità - congelati allo scoppio del Covid - e considerati deleteri per la crescita del Continente. Le distanze tra i Paesi rigoristi, capeggiati da Berlino, e quelli ad alto debito restano però ancora da colmare. E, consapevole degli ostacoli, la Commissione europea lancia il suo ennesimo appello a fare presto.
Nella visione di Palazzo Berlaymont, sostenuta anche dal commissario Paolo Gentiloni, è l'unico modo per "rispondere adeguatamente alle sfide del futuro". Il buon esito delle trattative passerà, come nelle migliori delle tradizioni Ue, dalla convergenza dell'asse franco-tedesco. Finora il dialogo esclusivo tra Parigi e Berlino, mediato dalla presidenza di turno della Spagna, ha portato a un testo sul tavolo che prevede - fermi restando i principi cardine fissati nel Trattato di Maastricht - un taglio annuale del debito dell'1% per chi sfora il 90% del Pil, e dello 0,5% per chi ha un rapporto debito-Pil tra il 60% e il 90%.
Accanto, l'impegno a stilare percorsi di rientro del debito tra i quattro e i sette anni. Parametri numerici che sembrano accontentare il falco tedesco Christian Lindner, alle prese in patria con inediti problemi sui conti pubblici, senza tuttavia essere abbastanza. A titolo di salvaguardia, nella visione dei rigoristi sostenuta anche da Austria, Finlandia, Repubblica ceca, Paesi Bassi, Svezia e Slovacchia, è necessario un aggiustamento strutturale minimo di almeno lo 0,5% del deficit per chi supera il 3% del Pil. Un impianto che all'Italia, da sempre restia all'idea di target numerici erga omnes, continua però a non convincere del tutto.
Anche perché a mancare è ancora l'agognata 'golden rule' per scorporare dal calcolo del deficit la spesa per gli investimenti per la transizione verde e digitale, e non solo per quelli destinati alla difesa. Senza contare che l'incrocio di numeri sembra resuscitare, anche nelle critiche mosse dalla presidente della Bce, Christine Lagarde, gli aspetti più tecnici e alienanti delle norme precedenti. Le trattative, nelle parole espresse dalla premier Giorgia Meloni a Dubai, sono "puntuali" per arrivare "a una soluzione nell'interesse dell'Ue". E di fatto per l'Italia si intrecciano alla ratifica della riforma del Mes. Se giovedì sera, dopo l'Eurogruppo e l'Ecofin, gli ostacoli politici dovessero rivelarsi insormontabili, la partita potrebbe finire direttamente sul tavolo dei leader vertice del 14-15 dicembre.
Rodolfo Ricci