Mentre l’Europa ora si affanna per costruire la propria strategia industriale, perde di vista qualcosa di molto più dirompente. L’Europa non ha colto la vera minaccia economica di Trump: non è la politica industriale ciò di cui il blocco deve preoccuparsi, ma l’ascesa del capitalismo nazionale. Lo spiega con molta chiarezza Izabella Kaminska, redattore finanziario senior presso Politico, in un articolo in cui illustra come il gioco è cambiato di nuovo: l’era della Bidenomics è già stata eclissata da una nuova visione radicata in quello che potrebbe essere definito "capitalismo nazionale". È una filosofia di liberalizzazione radicale che rifiuta l’intervento statale, abbraccia la privatizzazione e si appoggia pesantemente sulle forze di mercato per rimodellare l’economia, sebbene entro i confini di un sistema protetto. “Per qualche ragione questo messaggio non arriva a Bruxelles, che continua ostinatamente a combattere la guerra di ieri, brandendo gli strumenti statalisti di un’epoca in declino. La chiave della diagnosi errata in corso è la cecità rispetto al vero scopo e alla finalità dei dazi che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump minaccia di imporre”. Le tariffe non sono alimentate da obiettivi commerciali o da un rozzo protezionismo; il loro scopo è quello di isolare gli Usa mentre intraprendono una radicale ricalibrazione orientata al mercato, eliminando l’influenza distorsiva e spesso corruttiva dei modelli economici guidati dallo stato di altri paesi. L’America non sta dunque raddoppiando gli sforzi sulla politica industriale, ma sta abbandonandola. Anche nella difesa, da tempo pietra angolare della strategia industriale statunitense. Pete Hegseth, candidato del presidente a segretario alla difesa, ha chiaramente segnalato di voler rompere i rapporti consolidati tra il Pentagono e gli appaltatori, con una visione di libera competizione in cui le aziende più piccole e agili possono sfidare la vecchia guardia. “L’elemento più radicale della visione di Trump è la sua rivisitazione del contratto sociale con il popolo americano, in cui il protezionismo dello Stato si sposta dalla microgestione alla macrogestione. L'Europa non capisce come è cambiato il campo di battaglia. E il prezzo di questo errore di calcolo potrebbe essere costoso”. Conor Gallagher, corrispondente per la sicurezza e la cronaca nera dell’Irish Times, aggiunge altri elementi alla debolezza europea. “C’è una forte argomentazione secondo cui sarebbe nell’interesse nazionale degli Stati Uniti ritirarsi dall’Europa. E la cosa migliore che potrebbe accadere all’Europa sarebbe un ritiro degli Stati Uniti dal continente guidato da Trump, che costringerebbe l’Ue a ripensare alcune delle sue politiche economiche e di sicurezza. Ma questa visione non tiene conto dell’ascesa di presunti nazionalismi (e Gallagher cita proprio il primo ministro Meloni e il partito Alternativa per la Germania, ndr.) che sono in grado di rinominare il vassallaggio e il neoliberismo dell’Europa come una sorta di vittoria contro la stridente segnalazione di virtù della cabala di Davos, continuando nel contempo ad assistere gli oligarchi statunitensi nel saccheggio dell'Europa. Nel peggiore dei casi, è probabile che assisteremo a un autoritarismo ancora maggiore per continuare a trasferire ricchezza dagli europei agli oligarchi statunitensi”. Il problema nel credere che il Progetto Ucraina e la conseguente sottomissione dell’Europa siano semplicemente “il prodotto di una cabala liberal - woke - green che aveva potere in tutto l’Occidente è che ignora i radicati interessi economici dei plutocrati americani che cercano di estrarre ricchezza da qualsiasi parte del mondo controllino. Questo è ciò che lo stato permanente, guidato dai numerosi alveari di think tank finanziati dai plutocrati degli Stati Uniti che elaborano progetti di legge e politica estera diretta, agisce essenzialmente come un governo ombra. In alcuni casi, gli oligarchi sono sempre più a loro agio nell’eliminare l’intermediario”. Tenendo questo a mente, vi sembra che “nonostante l’imminente sconfitta dell’Ucraina sul campo di battaglia, i gangster americani vorranno perdere i guadagni della separazione dell'Europa dalla Russia?”. Anche se gli Usa si liberassero dall’Ucraina, assicurandosi che una nuova cortina di ferro venga tirata tra Europa e Russia, ciò potrebbe significare buoni affari per gli oligarchi americani, ma anche che i problemi dell’Europa non faranno che moltiplicarsi. L’International Institute for Strategic Studies (Iiss) suggerisce che per rimanere nelle grazie di Trump e degli oligarchi americani l’Europa potrebbe ad esempio coordinare il sequestro dei 300 miliardi di dollari di asset della banca centrale russa congelati nei sistemi finanziari del G7, utilizzandone una parte per acquistare armi americane per l’Ucraina. Ciò rafforzerebbe sia la sicurezza dell’Europa che l’economia americana. Non c’è bisogno di aggiungere altre spiegazioni per capire dove vada a parare una simile argomentazione, sostenuta soprattutto dai cosiddetti progressisti, evidentemente dimentichi del crollo del welfare in Europa, un tempo suo vanto. “È molto più di quanto la maggior parte delle nazioni europee possa permettersi finanziariamente o politicamente e probabilmente richiederà misure più autoritarie per incanalare quei soldi fuori dal paese. I membri europei di Trump International diranno di no alle spese militari che paralizzeranno ciò che resta dei programmi sociali nei loro paesi? O è più probabile che privatizzeranno in nome del taglio dei costi e organizzeranno svendite per le acquisizioni americane?” si chiede l’analista. Il segretario generale della Nato Mark Rutte sta già chiedendo ai cittadini europei di continuare a fare sacrifici per acquistare più armi. Nonostante tutte le armi miracolose occidentali abbiano fallito in Ucraina, gli acquisti devono continuare in nome della difesa contro l’orda russa e il pericolo cinese. Poi c’è la questione dell’arricchimento delle compagnie energetiche americane. L’Europa potrebbe anche incoraggiare gli Stati Uniti a venderle più petrolio allontanandosi contemporaneamente da Pechino. “Tutto questo, ovviamente, si adatta perfettamente a un’Ue neoliberista che da tempo ha effettivamente accontentato la destra eliminando l’effettiva opposizione della classe operaia”. Il ricercatore Jonas Elvander, direttore degli affari esteri della rivista socialista svedese Flamman e ricercatore di dottorato in storia presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, sostiene che oggi c’è poco che impedisca all’Ue di diventare un veicolo per le politiche di estrema destra.
Raffaella Vitulano