I risultati delle elezioni in Turingia e Sassonia - benché ampiamente previsti - gettano un'ombra potenzialmente oscura sulla Germania e dunque sull'Europa. Al di là del reale dna di Alternative für Deutschland (AfD), populista o neonazista, al momento l'effetto è lo stesso, la destabilizzazione del quadro politico tradizionale (in generale) nonché il possibile impatto sulla coalizione di governo (in particolare). Traduzione: le elezioni federali, previste fra un anno a settembre 2025, potrebbero persino tenersi prima, se il patto-semaforo che sostiene Olaf Scholz dovesse sfaldarsi. Bruxelles, in entrambi i casi, suda freddo.
Perché la crisi di Berlino andrebbe a sommarsi a quella di Parigi. Non è infatti un mistero che il motore franco-tedesco sta alla base del progetto europeo, nel bene e nel male. Ed è alquanto ingolfato ultimamente. La Germania, da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, ha visto andare in fumo molte sue certezze, le fondamenta sulle quali ha costruito il miracolo economico post-unificazione. Ovvero l'energia a basso costo grazie all'accordo con la Russia di Putin sul gas, un florido rapporto commerciale-industriale con la Cina, un sostanziale disinteresse per l'hard-power, appaltato agli americani (con conseguenti bassi investimenti nel settore della difesa).
Berlino, dopo il 24 febbraio del 2022, è corsa ai ripari, cercando faticosamente un nuovo centro di gravità permanente sul quale costruire politiche e consenso, avendo a che fare con un'opinione pubblica frastornata dalla rapidità del cambiamento. Che poi è la vera incognita da qui alle elezioni federali. "Diciamo che siamo a metà tra il panico e il business as usual: è parte di un trend più ampio, dunque non va estremizzato, ma anche non uno scenario ideale", confida una fonte diplomatica sintetizzando l'aria che si respira a Bruxelles.
Resta però da vedere come reagirà la coalizione guidata da Scholz da qui al prossimo settembre, se saprà tenere la barra dritta o cederà alla tentazione di rincorrere a destra l'AfD, suscitando al contempo possibili frizioni con l'Ue - il giro di vite sull'immigrazione annunciato dopo l'attacco a Solingen è un segnale. Non solo. La crisi sistemica ucraina s'inizia a vedere persino nel tessuto produttivo tedesco, con la Volkswagen che valuta, dopo 87 anni di storia, la chiusura di stabilimenti in patria per ridurre i costi. Perchè la domanda di automobili in Europa non si è ripresa dalla pandemia Covid, con le consegne in tutto il settore in calo di circa due milioni di pezzi rispetto ai picchi precedenti e con la Volkswagen che da sola ha perso vendite per circa 500mila auto, l'equivalente di circa due stabilimenti.
Un altro elemento osservato nel voto dei due Lender è la crescita dell'estrema sinistra, che ad esempio sull'Ucraina ha posizioni molto simili all'AfD, ovvero d'interruzione al sostegno militare (la Germania è seconda solamente agli Usa in questo frangente). In un Paese che conta sei milioni di cittadini russofoni il tema della guerra non è secondario e rischia di aggravarsi, complicando ad esempio le possibili alleanze dopo le elezioni federali, dato che lo spettro politico è sempre più frastagliato. Insomma, la strategia del cordone sanitario non è detto resti valida. Come peraltro si sta osservando in Francia. Cosa farà allora la Commissione - guidata proprio da una tedesca - davanti ad una Germania più incline a pensare a sé che al bene comune europeo? Saprà interpretare il suo ruolo costituzionale di garante dei Trattati o cederà il passo? Dunque niente panico, per ora, ma piena consapevolezza che saranno 12 mesi cruciali.
Rodolfo Ricci