Una ratifica del trattato Mes rappresenterebbe un approccio pro-Ue da parte dell'Italia, coerente con quello rivendicato sull'operazione Unicredit-Commerzbank. È questo il messaggio, abbastanza esplicito, che il vice-presidente della
Bce Luis de Guindos ha rivolto per l’ennesima volta al nostro Paese. "Ho già parlato dell'importanza di far prevalere un approccio europeo su un approccio nazionale - ha ditto de Guindos - ma questo approccio deve essere coerente da tutte le angolazioni e in ogni tipo di situazione. A mio avviso, un approccio pro-europeo all'integrazione dell'economia, del sistema bancario e dei mercati dei capitali dovrebbe prevalere per tutti gli aspetti in questione, inclusa la riforma del Mes".
L’Eurotower poi lancia un allarme: tanta Cina in Europa e l’eurozona diventa sempre più Pechino-dipendente. La Banca centrale europea ragiona sul peso economico della Repubblica popolare su scala globale, e sull’influenza che esercita oltre confine. I risultati delle analisi condotte nell’apposito studio sono quanto più chiari non si potrebbe: se gli Stati Uniti restano esposti ma stanno riducendo le dipendenze dal Paese asiatico, i Paesi Ue con la moneta unica invece stanno andando in direzione opposta. L’esposizione dell’Eurozona alla Cina aumenta. Dati alla mano, rilevano i tecnici della Bce, la quota della Cina nelle importazioni dell’area dell’euro è aumentata di 3 punti percentuali dal 2016, mentre la sua quota nelle importazioni statunitensi è diminuita di 11 punti percentuali. Non solo: dal 2022, l’area dell’euro ha avuto una maggiore esposizione alla Cina rispetto agli Stati Uniti.
C’è di più: l’Ue ha bisogno di ciò che non ha e che attualmente può trovare sul mercato cinese. Non solo la Cina è il principale paese di approvvigionamento per 33 beni strategici importati dall’area dell’euro, tra cui terre rare, litio, tungsteno, rame, cromo, ma "detiene anche oltre il 50% del mercato di importazione dell’area dell’euro per il 75% di questi prodotti.
Che l’Europa sia diventata troppo ‘controllata’ da Pechino da un punto di vista economico non è una novità. Per anni il mercato unico e aperto ha permesso a società cinesi di occupare posti strategici quali i porti, per le preoccupazioni del Parlamento europeo in materia anche di sicurezza. Salta agli occhi, sulla scia dei dati raccolti dai tecnici della Bce, come gli europei non solo non siano riusciti a invertire la tendenza, ma addirittura abbiano continuato a spingersi verso le braccia della Repubblica popolare.
Un problema, quest’ultimo, anche in ottica di relazioni trans-atlantiche. Gli Stati Uniti considerano oggi la Cina come il principale concorrente geo-politico, e un avvicinamento europeo a Pechino rischia di compromettere le relazioni con Washington, soprattutto se dalle elezioni della prossima settimana dovesse uscire vincitore Donald Trump, il candidato repubblicano alla presidenza che inquieta non solo a Bruxelles, ma pure in altre capitali.
La situazione per l’Ue e i suoi Paesi con la moneta unica dunque non cambia. La Cina è sempre troppo presente nell’agenda economica, sempre di più. Con tutte le implicazioni del caso di relazioni con gli Stati Uniti e le velleità di un’autonomia strategica che non appare esserci. Invece, dall’altra parte dell’Atlantico, ulteriore stretta Usa per limitare e monitorare gli investimenti americani in Cina nell'intelligenza artificiale, nei chip per computer e nell'informatica quantistica, nel tentativo di impedire all'esercito cinese di acquisire un vantaggio nelle tecnologie avanzate. Il Dipartimento del Tesoro ha finalizzato una norma in questo senso: bloccare le ambizioni high-tech di Pechino, uno dei pochi terreni dove si registra un ampio sostegno bipartisan a Washington.
Rodolfo Ricci