R) Gli impegni del Governo Draghi sono molteplici, a cominciare dal banale day-by-day, ossia l’attività corrente, che è assillante. Certamente dovrà completare il Recovery Plan soprattutto per quanto riguarda la definizione della governance, ossia di chi fa cosa e chi ha responsabilità, per terminare con la definizione dei tempi e delle misure, oltre ovviamente a rimpolpare il Piano lì dove è ancora carente. Mi lasci dire, comunque, che non necessariamente dovrà essere tutto rivisto. Credo che parti significative del Piano siano già state visionate e approvate a Bruxelles e il nostro Piano non differisce molto da quello di altri Paesi. Ho esaminato il piano spagnolo, che allo stadio attuale è solo una serie di desiderata e di obiettivi senza troppo dire come potranno essere raggiunti. Ho letto con attenzione anche il Piano francese, ben scritto (come sanno fare loro) e ben documentato, ma di fatto composto da una miriade di grandi e piccoli o piccolissimi interventi fatti di contributi alle imprese, alle famiglie e agli enti locali per una quantità estesa di obiettivi, attraverso il rifinanziamento di leggi e misure già esistenti. In sostanza, nel piano francese emergono come principali interventi: il bonus per i proprietari di casa per favorire la riduzione dei consumi energetici, contributi alle imprese per adeguarsi al digitale, riduzione delle tasse sulle imprese per favorire la competitività, investimenti nell’Alta Velocità e per la mobilità sostenibile. Quindi interventi molto simili a quelli già previsti nel Piano italiano che, non a caso, prevede bonus per l’edilizia, contributi industria 4.0, completamento dell’Alta Velocità, banda larga e quant’altro, basandosi spesso su misure già sperimentate.
Questa mia non è una critica ai piani francese e italiano, ma la constatazione che, se si vuole rilanciare il Paese in tempi brevi, è meglio utilizzare misure già collaudate piuttosto che sperimentare nuovi approcci che vanno messi a regime e i cui esiti non sono noti.
Piuttosto l’Italia ha un compito in più, e questa è, a mio avviso, la principale sfida di questo governo. Occorre fare alcune riforme che rendano più agile il nostro Paese (la Francia non prevede riforme). Le cito appena. Una riforma degli ammortizzatori sociali che superi una volta per tutte la cig straordinaria e la trasformi in un sistema di sostegno al reddito e di avviamento al lavoro per tutti i lavoratori e per i giovani in cerca di occupazione: questo dovrebbe essere un compito che spetta in primis alle parti sociali, che dovrebbero offrire al Governo una soluzione corretta con un patto forte tra di loro. Poi c’è la questione detta della semplificazione amministrativa, che comprende vari capitoli: dalla necessità di sollevare i dirigenti dai rischi penali quando operano senza dolo, dal definire una sistema di controlli ex post che sostituiscano quelli ex ante che stanno paralizzando l’amministrazione, fino allo scioglimento del sistema della conferenza dei servizi con tutte le amministrazioni che rischiano di essere paralizzate dai veti incrociati delle diverse amministrazioni. Insomma, c’è molto da fare ma la strada è tracciata.
D) Negli ultimi venti anni, come lei stesso ha recentemente ricordato, la nostra economia ha dovuto affrontare tre shock mondiali senza precedenti: l’esplosione del terrorismo con l’attentato dell’11 settembre 2001, il fallimento di Lehman nel 2008 e la pandemia nel 2020. Cosa devono fare oggi le imprese per affrontare la crisi e magari uscirne più forti?
R) Le imprese devono soprattutto ricapitalizzarsi per essere più resilienti, come si dice in questi tempi. Già prima della crisi pandemica avevamo imprese con un eccesso di debito, specie le Pmi che sono cresciute essenzialmente attraverso il credito bancario. Nulla di male in tempi normali, ma la nuova normalità non ha nulla di normale, se mi si passa il bisticcio di parole. Negli ultimi 20 anni abbiamo conosciuto tre crisi sistemiche ed ognuna è stata più pesante della precedente. Non voglio fare l’uccello del malaugurio, ma è vero che siamo entrati in un’era di forte volatilità. Sarà stata la globalizzazione che ha reso sempre più interconnessi persone, imprese, città, Stati al punto che basta un’infezione contratta in una città cinese per generare una crisi mondiale, così come la volta prima era bastato il fallimento di una banca americana. Sarà stato colpa delle innovazioni tecnologiche che ci hanno messo tutti in contatto in un presente che però è molto diverso nelle varie parti del globo. Sarà stato il ritorno del nazionalismo che si scontra con gli effetti della globalizzazione. Sarà questo e altro, ma è certo che siamo esposti a crisi continue di intensità marcata. Nel prossimo futuro nessuno di noi può essere certo che non dovremo affrontare una nuova crisi per qualche altra ragione. Ecco allora che è importante che i Paesi, le famiglie e le imprese siano resistenti, si attrezzino per eventuali periodi di difficoltà, sviluppino tutte le innovazioni che sono utili per sopravvivere anche in tempi incerti. Per le imprese, un simile scenario implica investimenti e patrimonio elevato. Poiché molte usciranno ancora più indebitate da questa crisi, è necessario che ci siano misure che favoriscano la ricapitalizzazione delle imprese, come la detassazione degli utili reinvestiti, la trasformazione in capitale del debito garantito dallo Stato concesso durante la pandemia, il potenziamento dei fondi della finanza alternativa per far affluire capitale privato nelle imprese. Ricapitalizzarsi può implicare per molti imprenditori utilizzare il patrimonio personale per reinvestirlo in azienda, oppure perdere un controllo assoluto delle imprese e mantenere un controllo di minoranza. Sarà un diverso modo di gestire le imprese, come avviene nei paesi più sviluppati.
D) In base anche alla sua esperienza manageriale, quale dovrebbe essere il giusto punto di equilibrio tra investimenti e riforme?
R) Investimenti e riforme sono legati tra di loro. Già realizzare un piano ambizioso di investimenti pubblici implica una riforma della Pubblica Amministrazione, della Giustizia e anche della politica che deve guardare sempre più ai tempi lunghi e non al breve. Ma le riforme sono necessarie anche per gli investimenti privati, perché presuppongono personale più preparato, riallocazioni di risorse e, quindi, spostamenti sul territorio di persone che, a loro volta, implicano politiche per l’abitazione, per le scuole, per la famiglia e soprattutto per le donne che rappresentano il bacino di riserva del lavoro meno utilizzato malgrado il livello di istruzione e di preparazione delle donne sia in Italia elevato. Insomma, il giusto equilibrio è il più elevato equilibrio possibile.
D) Lei è stato direttore generale di Confindustria negli anni della concertazione, con gli accordi del 1992 e 1993 sulla politica dei redditi. E’ una strada che può essere ripercorsa, e semmai a quali condizioni? In questo senso Draghi, che fu uno dei Ciampi boys, ha lo stesso approccio dell’ex Presidente della Repubblica?
R) Non posso sapere quale sarà l’approccio di Draghi, anche se il fatto che abbia sentito le parti sociali prima di formare il governo depone a favore di un suo apprezzamento del dialogo sociale. Io credo che possa essere utile ritrovare lo spirito, più che la forma, della concertazione. A mio avviso, lo spirito originale della concertazione, quella che ci ha portato all’accordo sulla scala mobile, sulla riforma della contrattazione salariale e all’ammodernamento del mercato del lavoro, è rappresentato dalla capacità delle parti sociali di trovare tra di loro in primis un accordo senza pregiudicare l’azione del Governo e le finanze pubbliche. Così è stato nel 1992 e 1993. Se le parti sociali sono in grado di scambiarsi onori e oneri per affrontare i problemi che li riguardano, allora hanno la capacità di portare il Governo e l’opinione pubblica verso politiche che favoriscano questo accordo. Se invece attendono che sia la spesa pubblica a farsi carico dei loro problemi, allora si rischia di rimettere tutto nelle mani della politica in un negoziato e una serie di tensioni che rischia di non finire mai. Così è stato, in parte, per la riforma delle pensioni, che non scaturì da un accordo tra le parti sociali, ma tra il Governo di allora (Dini) e le parti sociali divise tra di loro. Una riforma molto utile a quell’epoca, ma che non si è mai conclusa e ancora oggi genera tensioni con Quota 100, gli scaloni e quant’altro. Per questo auspico che le parti sociali si accordino per una riforma degli ammortizzatori sociali, facendosi carico anche di come ripartire i costi.
D) Da anni si parla di partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese. Molti disegni di legge in materia sono stati presentati e poi accantonati. Lei ritiene maturo un nuovo modello di governance delle imprese?
R) Ecco un altro campo che, a mio avviso, potrebbe essere ambito di concertazione, prima ancora che di una legge. Gli imprenditori stanno avanzando nel concetto di responsabilità dell’impresa verso diversi stakeholder fra i quali ci sono, evidentemente, anche e soprattutto i lavoratori. Si potrebbe immaginare che le parti sociali trovino un compromesso per avviare forme di sperimentazione del coinvolgimento dei lavoratori nell’informazione e anche nella gestione dell’impresa. Sono più perplesso all’idea di una legge che intervenga a rendere obbligatoria una partecipazione dei lavoratori che finirebbe per essere formale e generare più tensioni e disillusioni che soluzioni. Ciò detto, credo che una partecipazione dei lavoratori sia utile nelle imprese di una certa dimensione e credo anche che si potrebbero negoziare forme di partecipazione azionaria, almeno per le grandi aziende che hanno capitale diffuso, attraverso sistemi di attribuzione di azioni ai lavoratori.
Giampiero Guadagni