Lo smart working ha cambiato per sempre il nostro modo di lavorare. Su questa percezione ormai diffusa occorre interrogarsi per capire cosa davvero rimarrà del lavoro in remoto una volta che l’emergenza sanitaria sarà finita. E come gestirlo con efficacia nelle sue potenzialità innovative.
Un approfondimento della materia è proposto dall’ultimo Working paper della Fondazione Tarantelli, che contiene tra l’altro il contributo di Luigi Sbarra. Per il segretario generale aggiunto della Cisl “la partita sul lavoro a distanza e lo smart working rappresenta un banco di prova determinante. È una soluzione “win-win”: offre grandi benefici al lavoratore, all’impresa e alla comunità. Aumenta la produttività: quasi 10mila euro/anno a lavoratore il risparmio medio per le aziende. A parità di trattamento eleva il salario reale del lavoratore. Porta a una riduzione dei costi di trasporto e aumenta la sostenibilità ambientale. Rilancia la conciliazione vita-lavoro e promuove l’inclusione della disabilità”. Per tutto questo, sottolinea ancora Sbarra “è determinante restituire tutta la materia all’esercizio della contrattazione, riportandola sul terreno dei contratti nazionali e - soprattutto - su quello degli accordi di secondo livello. Dobbiamo arrivare a un’intesa concertata tra Governo, sindacato e imprese per stabilire saldi affidamenti da attuare attraverso la contrattazione nazionale, aziendale e territoriale.
Tra gli altri interventi al Working paper, quelli del segretario generale della Ces Luca Visentini; della segretaria generale della Cisl Scuola Maddalena Gissi; di autorevoli esperti; e le analisi giuridiche curate da Marco Lai ed Ettore Innocenti del Centro studi Cisl di Firenze.
Il lavoro da remoto, osserva il coordinatore del Working paper Antonello Assogna, ”è entrato a pieno titolo nell’organizzazione del lavoro dei vari settori merceologici. Sarà compito dei decisori politici e delle parti sociali trovare le sintesi su alcuni aspetti nodali: l’impatto sulle nuove generazioni, il contenimento del digital divide, l’aggiornamento formativo, il ripensamento degli spazi architettonici ed urbanistici dedicati al lavoro e alla socialità, le infrastrutture digitali adeguate ad un utilizzo capillare delle nuove tecnologie, un impianto normativo all’altezza del cambiamento delle condizioni di lavoro”.
D’altra parte durante la pandemia ”più che smart working abbiamo fatto telelavoro, un meccanico trasferimento del luogo di lavoro dalla sede aziendale alla propria abitazione o ad altro luogo”, ha sottolineato il presidente della Fondazione Tarantelli Giuseppe Gallo in occasione del webinar che si è svolto nei giorni scorsi. Il lavoro agile invece scardina due principi del lavoro subordinato: vincolo spaziale e vincolo temporale. La legge del 2017 che regola la materia implica notevolissime potenzialità: riprogettare, in forme sistemiche, la filosofia del lavoro e, conseguentemente, la complessiva organizzazione del lavoro sulla base di relazioni fiduciarie, cooperative, di orientamento ai risultati e di responsabilità diffuse”.
Ci sono potenzialità e ci sono naturalmente anche rischi in questo processo. Su tutti: digital divide, segregazione delle donne, solitudine del lavoratore, preminenza del lavoro sulla vita personale”. E proprio per consolidare le potenzialità e ridimensionare i rischi, sottolinea Gallo, ”occorre recuperare l’intera materia alla contrattazione, all’interno di una grande patto sociale. Questo è il modello di governance vincente, integrata e partecipativa per dare voce e futuro a questa svolta di civiltà”.
In questo orizzonte interagiscono più elementi, indicati dal direttore generale del Censis Massimiliano Valerii. Perché l’epidemia ha certo comportato restrizioni senza precedenti alla liberà personale (con una ”relazionalità amputata”, ”un crollo verticale anche del Pil della socialità”); ma ha anche di fatto costituito un imprevisto, improvviso, potentissimo fattore di accelerazione di processi già in atto e di fenomeni preesistenti nel nostro Paese; squarciando il velo su nostre vulnerabilità strutturali”. Per questo d’ora in poi non ci sono più alibi per nessuno. Vulnerabilità che riguardano intanto la sanità ”a causa dell’assenza di una rete capillare di medicina territoriale, che certo avrebbe potuto allentare la pressione sui pronto soccorso e sui reparti dei grandi ospedali di fronte a picchi intensi e improvvisi della domanda di prestazioni sanitarie, come nel caso appunto di un’epidemia. Ma non possiamo dimenticare che abbiamo alle spalle anni di contenimento della spesa sanitaria pubblica”. Così come ”nella scuola abbiamo registrato l’esclusione di tanti alunni e studenti dalla didattica a distanza. Dimenticando, ancora una volta, che il nostro sistema di istruzione era caratterizzato già prima dell’emergenza da tassi di abbandono scolastico ben superiori alla media europea”. Tra i fattori preesistenti, va anche ricordato che ”prima della pandemia i consumi non erano ancora tornati ai livelli pre-crisi 2009”. Allo stesso modo, aggiunge Valerii, ”la perdita di 622 mila occupati nonostante il blocco dei licenziamenti ha riguardato per il 75% giovani e donne, vale a dire i due gruppi sociali già prima dell’epidemia ai margini mercato del lavoro”.
Il direttore generale del Censis si sofferma infine sulla ”preoccupante, radicale transizione demografica che il paese sta attraversando. Il 2019 si era segnalato come l’anno in cui si era battuto un nuovo record negativo in termini di natalità, con il più basso numero di nascite di sempre (420 mila) dal 1861, da quando cioè ci sono statistiche demografiche. Ma anche questo processo ha subito un’accelerazione a causa dell’epidemia, perché nel 2020 la natalità è sprofondata sotto la soglia dei 400 mila nati, ovvero meno della metà di quanti ne nacquero nel nostro Paese durante la seconda guerra mondiale. Di fronte a questo senario, conclude Valerii, è inevitabile ”percorrere il sentiero di un innalzamento della produttività per garantire la stabilità del nostro alto debito pubblico e assicurare la sostenibilità finanziaria della crescente spesa sociale.
La questione produttività è condivisa da Giuseppe Gallo, che segnala anche l’urgenza di intervenire sulle diseguaglianze; sulla leva fiscale decisiva per redistribuzione, che ora grava tutta sul lavoratore dipendente; e sugli investimenti pubblici, che possono avere un effetto moltiplicatore su quelli privati.
Intanto in materia di lavoro agile una breccia d’avanguardia è stata aperta dal primo grande accordo tra le parti sociali nel settore della grande distribuzione sia per la svolta culturale sia per la coerenza dei contenuti. Ricorda Milko Traversa, direttore risorse umane di Coop Alleanza 3.0: ”il primo febbraio è entrato in vigore l’accordo sullo smart working siglato lo scorso dicembre con le organizzazioni sindacali di categoria che consente alla cooperativa di avviare una inedita e innovativa sperimentazione che coinvolge su base volontaria la popolazione dei circa 1.000 dipendenti di s-de e a cui hanno aderito oltre il 90% dei lavoratori”. Coop Alleanza 3.0 considera lo smart working ”un vero e proprio cambiamento culturale: il lavoro agile è un modello di organizzazione capace di generare vantaggi per i lavoratori sia in termini di conciliazione tra lavoro e vita privata che di relazione con i propri capi e colleghi, sviluppando un approccio al lavoro fondato sulla fiducia e sulla collaborazione. In questo modo, si vuole promuovere una cultura del lavoro basata sui risultati e sulla responsabilizzazione, anziché sul controllo”.
Appunto l’obiettivo prossimo venturo per andare oltre lo stato di eccezione e fare del lavoro agile una modalità strutturata a misura di lavoratore.
Giampiero Guadagni