L’ architettura del mondo del lavoro sta mutando continuamente sotto i nostri occhi, portando dietro di sé conseguenze straordinarie sulle nostre vite. La pandemia è stata un vero e proprio game changer, per il mercato del lavoro. Imprese, lavoratori e organizzazioni si trovano di fronte ad un bivio strategico, culturale e operativo. Ne parliamo con il professor Francesco Delzio, che ad una profonda conoscenza del mondo delle imprese come imprenditore e manager unisce l’attività accademica di Direttore del Master in Relazioni Istituzionali e Human Capital della Luiss Business School e quella di amministratore pubblico, come Consigliere d’Amministrazio ne di Sviluppo Lavoro Italia. Nel suo ultimo libro "L'era del Lavoro Libero" (Rubbettino editore) si interroga sulla radicale trasformazione degli assetti del mercato del lavoro, offrendo una visione innovativa dei cambiamenti in corso.
Professore, nel mondo del lavoro è in corso una rivoluzione. Cosa stiamo attraversando?
Stiamo vivendo una fase straordinaria nel mondo del lavoro, sotto l’effetto di due rivoluzioni che agiscono quasi simultaneamente. La prima è molto sottovalutata: il cambiamento radicale delle aspettative e dei bisogni espressi dalla Generazione Z e dai Millennials rispetto al lavoro, che non è più il “sovrano assoluto” delle nostre vite e a cui non chiediamo più soltanto retribuzione e carriera ma molto altro. La seconda rivoluzione è l’avvento dell’Intelligen za Artificiale che sta già cambiando i modelli produttivi e organizzativi delle imprese e ancor più lo farà tra 2-3 anni, quando il costo del salto tecnologico diventerà accessibile alle medie e piccole imprese.
Quando è iniziata e quali sono stati i fenomeni che hanno portato ad una progressiva 'liberazione 'del lavoro dalle rigidità che lo hanno caratterizzato a partite dalla rivoluzione industriale?
Ne “L’era del Lavoro Libero” analizzo un mondo in cui vengono meno progressivamente i vincoli di tempo e di spazio, che hanno governato l’occupazione dalla Rivoluzione Industriale ad oggi. Il modello rigido del lavoro per otto ore al giorno, da svolgere per tutti nelle stesse ore e nello stesso luogo fisico, sta lasciando spazio a modelli ibridi caratterizzati da smart working e home working, flessibilità oraria, capacità di auto-organizzazione e maggiore autonomia (quindi maggiore responsabilità) nello svolgimento della propria mansione, misurazione per obiettivi e non solo per ore lavorate. Con uno spostamento inesorabile dalla quantità alla qualità del lavoro, dalla produzione alla produttività. La pandemia è stata un fortissimo acceleratore, ma si tratta di fenomeni che in gran parte si erano già manifestati a partire dai primi anni Duemila. E che qualcuno aveva “vi sto” prima: ho ritrovato un’incredibile intervista televisiva ad un giovanissimo Steve Jobs, che nel 1990 (35 anni fa!) teorizzava un modello sperimentale di interpersonal computing che avrebbe consentito a singoli dipendenti di interagire tra di loro in tempo reale da luoghi e organizzazioni differenti. Era l’antenato dello smart working, chiesto oggi a gran voce soprattutto dalla Gen Z.
Di quali novità si è fatta portatrice la Generazione Z?
La Z è stata etichettata ingiustamente come la “Genera zione dei fannulloni”. In realtà, i nostri ragazzi hanno in testa un modello di lavoro radicalmente diverso rispetto ai padri. Così diverso che spesso non esiste nelle aziende… Chiedono modelli di lavoro ibridi caratterizzati dall’am pio utilizzo dello smart working, notevole flessibilità rispetto a orari e ferie, autonomia organizzativa. E vogliono potersi riconoscere nel brand, nel ruolo sociale, nell’impron ta ambientale e nell’etica pubblica di un’impresa. Naturalmente hanno ancora un peso anche la retribuzione e la carriera, che però non sono più i must assoluti delle loro scelte. Ma è pronto il nostro sistema imprenditoriale a raccogliere la sfida della Gen Z? Non ancora. La mitica risposta “Le farò sapere”, che per decenni è stata utilizzata dagli HR Manager per congedare ragazzi con poche chances di avere quel lavoro, oggi al contrario è sempre più utilizzata dai nostri ragazzi più preparati al termine delle selezioni. Perché sono loro, oggi, a scegliere l’azienda in cui lavorare.
Che tipo di esternalità comporta l'adozione del modello del 'lavoro libero'?
Sicuramente una, che corrisponde ad un grande questione manageriale: come garantire all’interno delle aziende la formazione sul campo, in particolare il trasferimento e lo scambio di competenze dai lavoratori più senior a quelli più junior, nei modelli di lavoro ibridi? È un tema organizzativo e culturale ancora irrisolto a livello internazionale.
Il legislatore italiano ha saputo cogliere il repentino mutamento di questo cambio di costume nel mondo del lavoro?
A differenza di quanto avvenuto in altri Paesi europei, il legislatore italiano ha scelto di lasciare all’autonomia delle parti sociali la regolamentazione dello smart working e delle altre forme di flessibilità organizzativa. Non è stata una cattiva scelta. A livello più generale, è molto positiva la scelta di questo Governo di restituire valore al lavoro rispetto all’assi stenzialismo, attraverso gli interventi sul cuneo fiscale e sul reddito di cittadinanza.
Nel libro, lei parla di divorzio tra partiti italiani e il mondo del lavoro. Se non esistono più i partiti dei lavoratori e i sindacati non hanno più, o almeno non più come un tempo, il ruolo di 'cinghia di trasmissione ' tra politica e mondo del lavoro, a chi è rimesso il ruolo di tutela dei diritti costituzionalmente riconosciuti al lavoratore?
Sa perché mi colpisce molto questo divorzio tra i partiti italiani e il mondo del lavoro? Perché in fondo il lavoro è il vero “petrolio” italiano. La capacità di “far bene” dei lavoratori italiani e insieme il primato nell’innovazione di prodotto dei nostri imprenditori, eredità entrambe del Rinascimento, hanno trasformato negli ultimi decenni il nostro Paese in una potenza industriale. Dare per scontato o disconoscere tutto ciò, e quindi non occuparsene, significa dimenticare il nostro DNA. Per quanto riguarda i diritti costituzionali dei lavoratori, sono tutelati ancor oggi dalla solidità della nostra contrattazione collettiva. Ecco perché non hanno molto senso soluzioni legislative che tentano di sostituirsi alle parti sociali, come il salario minimo.
L'attuale Governo sembra aver risposto con apertura alla proposta di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, presentata dalla Cisl con l'intento di dare piena attuazione all'art.46 della Costituzione. Come cambierà la governance a seguito dell’a dozione di un modello partecipativo? Quali saranno le sfide più significative per i manager?
Sono molto favorevole alla diffusione in Italia di modelli che favoriscano la partecipazione dei lavoratori all’impresa, al punto da averne fatto negli ultimi anni un tema di impegno personale, in particolare di analisi a livello accademico e di progettazione strategica a livello aziendale. E considero la proposta di legge della CISL un passo decisivo per costruire una “via italiana” alla partecipazione, perché consente ad ogni impresa in modo volontario, flessibile e incentivato di costruire un proprio modello di coinvolgimento dei dipendenti, senza dover abbracciare un modello tedesco figlio delle ferite della Seconda Guerra Mondiale e “indige sto” a molti imprenditori e manager. L’adozione di modelli partecipativi potrebbe aumentare notevolmente la qualità del lavoro e la motivazione dei lavoratori, aiutando a moltiplicare livelli di produttività oggi troppo bassi che rappresentano il “vulnus” del nostro sistema imprenditoriale. Inoltre, consentirebbe di affrontare in modo più efficace la principale sfida manageriale dei prossimi anni, ovvero la gestione degli impatti dell’AI sui lavoratori e sui modelli organizzativi. Discutendo di Partecipazione con imprenditori e top manager, però, provo spesso la stessa sensazione dell’astronauta appena tornato da Marte. Senza un salto culturale del nostro management, e senza una potente attività di informazione sulle opportunità della partecipazione, rischiamo di avere una buona legge di sistema ma poche “isole felici” che la applicano. Non possiamo permettercelo.
Serafina Russo