Martedì 22 ottobre 2024, ore 17:41

Mostre

Niki de Saint Phalle, Donna artista

di ELIANA SORMANI

"Da adolescente ho rifiutato violentemente il modello dei miei genitori. Ho dovuto ricreare me stessa. Non avevo un’iden tità chiara. Mi sentivo metà francese, metà americana.

Volevo anche essere sia uomo che una donna. Mi sembrava che la società concedesse infinitamente più libertà agli uomini che alle donne”. Con queste parole scritte nel 1999, a quasi settant’anni, Niki de Saint Phalle ricorda come ha preso coscienza delle diseguaglianze presenti nella società francese e americana in cui si trovava a vivere, spiegando in questo modo le sue scelte di erigersi a paladina con la sua arte di tutte le forme di diseguaglianza presenti nel mondo. “Donna artista” (come amava definirsi lei), pittrice, scultrice, autrice di film sperimentali, performer, considerata tra le più grandi artiste del Novecento, protagonista nel mondo di numerose retrospettiva con i suoi messaggi di grande potenza espressiva, ma non abbastanza conosciuta in Italia, Nike de Saint Phalle è oggi finalmente protagonista, per la prima volta in un grande museo civico italiano, come il Mudec di Milano, di un’ampia retrospettiva che ne ripercorre, attraverso i momenti salienti, il suo percorso artistico. Curata da Lucia Pesapane la mostra “Niki de Saint Phalle”, aperta dal 5 ottobre al 16 febbraio 2025, non solo è l’occasione per rendere omaggio a una donna che aveva scelto l’Italia come luogo in cui realizzare il capolavoro della sua vita, il Giardino dei Tarocchi a Capalbio, in cui divorando tutte le influenze artistiche presenti nell’arte del nostro paese, aveva elaborato un suo linguaggio unico e irripetibile, ma anche per riflettere, in modo molto gioioso, su tematiche quanto mai oggi attuali che vanno dalle diseguaglianze al diritto alla libertà, fino al diritto di ribellione contro ogni forma di ingiustizia.

Attraverso otto sale cronologiche e tematiche, la curatrice ha cercato di mettere in evidenza sia il rapporto dell’artista con le opere del Museo delle Culture, come con l’Italia, con cui l’artista aveva instaurato un rapporto speciale dopo essere giunta la prima volta negli anni Cinquanta con il primo marito e aver visitato i territori senesi, dove si era innamorata dell’arte rinascimentale trovando una motivazione per continuare la sua attività artistica iniziata da autodidatta. Il percorso della mostra milanese, che si snoda attraverso 110 opere, tra cui una decina di grandi dimensioni, copre un arco di tempo che va dal 1959, con l’assemblaggio “Nightscape”, fino al 2000, con i grandi “Totem”, creati dall’ar tista dopo il suo ritorno in California quando riprende ad usare un linguaggio vicino ai popoli nativi americani, in cui mosaici, specchi e vetri trovano una nuova luce.

Nata nel 1930 in una ricca famiglia aristocratica, di origine francese da parte di padre e americana da parte di madre, fin da bambina sperimenta su di sé quelle che sono le varie forme che l’oppressione di genere può assumere. Le sue confessioni all’interno dell’opera autobiografica “Traces. Une autobiographie 1930-1949” relativamente agli abusi subiti da parte del padre e ai condizionamenti famigliari rispetto al suo modo di essere e progettare il suo futuro, la spingono come reazione ad assumere atteggiamenti ribelli sia all’interno del suo percorso scolastico come nelle scelte di vita, tanto che verrà ripetutamente espulsa dagli istituti scolastici frequentati, fino ad arrivare, per sfuggire ai progetti matrimoniali per lei pianificati, ad unirsi in segreto in matrimonio con Harry Mathews, un giovane poeta e musicista compagno di studi, squattrinato, da cui avrà due figli e con cui si trasferisce prima nel Massachussett, dove inizia a dipingere e poi nel 1952 a Parigi dove riprende la sua attività di modella. Il suo vero e importante esordio artistico avverrà negli anni Sessanta in seguito ad una serie di performance in cui sparando contro un quadro bersaglio, darà vita a opere dagli esiti capaci di lasciare tutti a bocca aperta. Si tratta dei famosi “Tiri” in cui l’artista incolla su pannelli lignei oggetti in plastica insieme a barattoli e bombolette di pittura ricoperti di bianco che poi colpiti faranno esplodere i colori creando l’ef fetto di colate di sangue, espressione della sua critica verso l’arte astratta, la società patriarcale e la situazione politica in quegli anni dominata dalla violenza e dalla guerre. Nei medesimi anni esprime la sua protesta anticlericale attraverso la serie delle Cattedrali, di cui diversi esemplari sono esposti in mostra. Fin da bambina si eleva a paladina dei diritti della donna, decisa a diventare un’eroina per riscattare con la sua arte la figura femminile da quei ruoli di moglie, madre e sposa imposti dalla società, distruggendoli uno ad uno. In mostra si può vedere la monumentale scultura “La sposa a cavallo” in cui una sposa cadavere, uno zombi senza volto, è trascinata verso l’altare su un cavallo sbilenco. Accanto a queste opere di denuncia crea figure di donne possenti più grandi degli uomini in grado di rivendicare i loro diritti (Le Femme or Clarisse) fino a giungere alle sue opere iconiche famose in tutto il mondo con il nome di Nana. Realizzate inizialmente in tessuto e cartapesta poi in resina colorata, le Nanas sono la versione pop della grande Dea Madre Terra venerata dagli antichi, i cui corpi si estendono in una gravidanza cosmica. Libere dagli stereotipi imposti dalla moda che voleva modelle di eccezionale magrezza, le sue possenti e colorate figure femminili dalle curve rotonde rappresentano la donna libera da ogni condizionamento sociale, paladina dell’ugua glianza di genere, sexy e sportiva, gioiosa e potente, capace di imporsi in una società dominata ancora dal maschilismo. Le sue Nanas diventano via via sempre più grandi fino a divenire sculture abitative, vere e proprie case in cui ritrovarsi e sognare. Un’in tera sezione della mostra è dominata da queste figure femminili dai mille colori non solo dalla pelle bianca ma anche nera, in onore di tutti coloro che sono emarginati per il colore della pelle. Le sue opere di carattere monumentale divengono anche un’occasione per difendere pubblicamente i malati di AIDS, quando negli anni Ottanta vede morire diversi amici e assistenti.

La malattia è rappresentata nell’opera “La peste” da un ragno che divora bamboline di plastica. La serie “Obelischi” grandi preservativi colorati (esposti anche in mostra) che ricordano i menhir, i totem dei nativi americani, i lingam indiani, simboli fallici, diventano un’occasione, insieme alla pubblicazione di un libro illustrato per sfatare certi stereotipi legati al virus e per incoraggiare i giovani a proteggersi per evitare la malattia. Nel 1974 si mette alla prova anche come regista e produce il film “Daddy”, in cui mostra in modo spietato i rapporti di dominazione tra i sessi, descrivendo la “fami glia come un’arena in cui ci si divora l’un l’altro” e esprimendo il suo rancore verso la figura paterna che nel film viene ucciso in modo simbolico con 17 colpi di fucile. Vent’anni dopo nel 1994 in una lettere alla figlia Laura, pronta al perdono, confessa le violenze da lei subite all’età di 12 anni da parte del padre e scrivendo il libro “Mon secret”, trasforma la scrittura in una vera e propria terapia liberatoria volendo quasi liberarsi dai sensi di colpa che la accompagnano continuamente per aver abbandonato negli anni Sessanta i figli con il marito e aver inseguito i suoi sogni artistici accanto al nuovo compagno e artista Jean Tinguely. E sarà proprio sostenuta dal compagno che inizierà nel 1978 a costruire alla periferia di Capalbio, in un terreno donatole da Carlo e Nicola Caracciolo Agnelli, il Giardino dei Tarocchi: un parco di 22 sculture, monumentali e persino “abitabili”, ispirate alle carte dei Tarocchi coperte di mosaici e ceramiche variopinte. Il cantiere che dura vent’anni assorbe tutte le sue forze e le sue risorse fisiche e economiche, ma è la realizzazione del suo sogno magico, che aveva già nella mente quando nel 1955 aveva visitato Parc Guell a Barcellona e poi Bomarzo e il palazzetto di Villa d’Este: un percorso spirituale, esoterico durante il quale il visitatore si imbatte in draghi, principesse, oracoli e profeti prima di trovare la via d’uscita e forse se stesso; “un omaggio a quelle donne alle quali, per secoli, non era stato permesso rivelare la loro forza e la loro creatività; e quando hanno osato farlo, sono state derise, schernite, represse, bruciate come streghe o rinchiuse in un manicomio”. La mostra si conclude con un’ultima sala in cui sono esposti i suoi Totem, un ritorno alle origini, agli antichi culti dei popoli nativi che vivevano nel sud della California prima della colonizzazione. Opere create dopo il suo ritorno, per ragioni di salute, a san Diego, poste all’interno del giardino di sculture “Queen Califia’s Magical Circle”, creato in onore della regina Califia, mitica fondatrice della California, bellissima ma spregiudicata guida di un gruppo di guerriere attorno a cui pone una serie di totem simboli della cosmogonia mesoamericana riprendendo nei muri di recinzione forme di serpenti. E mentre la vecchiaia incombe e con essa si fa prossima la fine, l’artista cerca di affrontare anche questo nuovo evento in modo gioioso e senza paura, grazie all’arte che diviene per lei ultima consolazione. Ecco allora nascere i suoi teschi luccicanti e scintillanti espressione della sua visione gioiosa della morte, perché come scrive su una delle sue ultime opere “la Mort n’existe pas, Life is eternal” E lei, eterna, rimane attraverso le sue meravigliose opere.

Niki de Saint Phalle, Milano-Mudec, 5 ottobre-16 febbraio 2025

( 22 ottobre 2024 )

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