Venerdì 5 luglio 2024, ore 0:41

Libri

Le radici culturali dell’estrema destra

di GIAMPIERO GUADAGNI

I giovani non conoscono la storia, non sono interessati al passato e vivono tutto proiettati nel presente. Non è la sintesi di un rapporto Censis sulle nuove generazioni, ma l’osserva zione “in diretta” di un autore televisivo di riconosciuta reputazione: il “Signor No”, al secolo Ludovico Peregrini, storico collaboratore di “Rischiatutto”. Intervistato in occasione dei 100 anni dalla nascita di Mike Bongiorno, Peregrini facendo riferimento a suoi recenti casting per una riedizione di quella fortunata trasmissione degli anni ’70, ha trovati davanti “lacune stupefacenti sulle informazioni, come se dal cervello umano sia stata abolita la storia, la geografia, la religione... Su questi argomenti non sono più neppure contemplate le domande e non solo nei telequiz”. Osservazioni che l’esperienza comune sottoscrive. Anche per questo è motivo di conforto la pubblicazione (per i tipi de “la rondine”) di un libro su vicende nazionali del recente passato scritto da un ragazzo di nemmeno 27 anni: Giacomo Gaiotti, una laurea con lode in Storia e politica internazionale all’Università Roma Tre, studioso di storia contemporanea, collaboratore del programma Rai “Passato e Presente”.

Partiamo da titolo: “Dalla Rsi al nuovo ordine”. Gaiotti, il suo libro-inchiesta è la storia dell’estrema destra giovanile dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla vigilia delle stragi: perché la scelta di fermarsi su questa soglia? E perché parla di “velleità eversive” ?

La scelta di fermarsi sulla soglia delle stragi risponde a due ordini di motivi diversi: periodizzazione e scelta di analisi. Ho scelto di approfondire un periodo storico che solitamente è tenuto in considerazione per altri eventi che riguardano la storia nazionale recente, dal boom economico alla creazione dei primi governi di centrosinistra, fino alle prime statalizzazioni dei primi anni Sessanta. Insomma, dal referendum del giugno del 1946 fino alle stragi si perdono di vista i movimenti di estrema destra in Italia, soprattutto nella loro (in)dipendenza dal partito Msi. Ritengo che sia molto importante, invece, puntare l’attenzione su mondi che spesso e volentieri sono conosciuti solo tramite le fonti processuali e investigative, proprio in virtù del coinvolgimento di responsabilità nelle stragi, ma che per ovvi motivi non tengono in considerazione le diverse articolazioni interne e le differenze culturali tra i vari gruppi, e tra i più giovani. E qui mi collego alla seconda motivazione: la scelta di analisi è stata quella di focalizzarsi sull’humus culturale di ambienti nati alla periferia dell’allora nascente stato democratico, figli dei medesimi eventi storici ma soggetti a diverse interpretazioni. La scelta, dunque, è stata quella di analizzare le differenze tra partito Msi e le nascenti formazioni di estrema destra, ad esso collegate ma verso il quale volevano al contempo recidere il cordone ombelicale che ne aveva garantito il nutrimento. Sul termine “velleità eversive”, mi sono agganciato ad una risposta che Freda ha dato nell’intervista che ho avuto modo di fare: a precisa domanda sulle effettive potenzialità di quei gruppi nel poter sovvertire lo Stato, Freda risponde che, se fossero state potenzialità effettive, avrebbero dato seguito a ben altre conseguenze.

Di Freda torneremo naturalmente a parlare. Finita la guerra, la maggiore preoccupazione degli uomini che venivano dalla Repubblica sociale era quella di salvaguardare e rilanciare la militanza politica fascista; o di di rafforzare l’argine anticomunista?

Il primo obiettivo di molti di quelli che uscirono dalla Rsi all’inizio fu la sopravvivenza, non solo politica ma anche e soprattutto fisica. Il rilancio di una militanza politica fascista non poteva essere fatto senza inserirsi in una logica di antagonismo rispetto al comunismo, poiché ormai la guerra era terminata e le sorti dell’Italia avevano preso una via che non poteva più in alcun modo vedere una militanza attiva dei fascisti in future campagne elettorali o governi, il fascismo sarebbe stato messo fuori legge di lì a poco nella Costituzione. Nell’immediato dopoguerra e prima della nascita del Msi, furono diversi i tentativi di rilanciare questa necessità, quelli che poi confluirono nel partito e ne furono colonna portante in termini numerici e di adesioni prevedevano tutti di rafforzare l’argine anticomunista, perché era la moneta più spendibile nel nascente e libero mercato della guerra fredda.

Quale fu l’atteggiamento di fronte alla scelta tra Monarchia e Repubblica?

L’atteggiamento fu quello di chi deve provare a ritagliarsi uno spazio di sopravvivenza tra due fuochi che si stanno contendendo la futura impostazione dello Stato. Dobbiamo precisare che l’obiettivo doveva necessariamente passare per una comune unità di intenti, da parte dei neofascisti, per cui era molto importante che ci si mostrasse uniti anche nella dimensione operativa. Ricordiamo che il Msi ancora non esisteva all’e poca del Referendum (la nascita è nel dicembre del 1946), per cui ci si dovette muovere in modo diverso. Pino Romualdi in quel periodo mise in piedi il Senato, un primo tentativo di controllo dell’am biente neofascista, dandosi una parvenza di struttura interna. La linea che si seguì fu quella di non schierarsi né con i monarchici né con i repubblicani in caso di vittoria, ma di vedere il risultato delle urne. L’astio dei fascisti non era verso l’intero istituto monarchico, quanto piuttosto circoscritto alla figura di Re Vittorio Emanuele III, reo, a dire loro, di aver tradito la patria.

Venti giorni dopo quel referendum, arriva l’amnistia decisa dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Togliatti, che riguardava reati comuni e politici, compresi quelli di collaborazionismo con il nemico. C’è un nesso tra referendum e amnistia?

L’esito del Referendum del 2 giugno 1946 fu quello della vittoria della Repubblica, a distanza di poche settimane arrivò l’amnistia di Togliatti il cui obiettivo era duplice: da una parte, la pacificazione nazionale dopo gli anni della guerra, dall’altra si voleva far ripartire senza eccessivi tentennamenti le attività politiche, culturali e economiche inerenti alla ricostruzione del paese a seguito del Referendum. Inoltre, si deve considerare che la macchina burocratica e amministrativa di un paese che è uscito da una guerra sanguinosa non può semplicemente essere rimpiazzata con nuovi addetti che mandino avanti il lavoro, per questo si rese necessario permettere il ritorno anche di quanti erano stati parte di quegli apparati anche durante il fascismo.

Alla fine del 1946 nasce il Movimento sociale italiano: l’anima istituzionale si impose su quella più reazionaria e violenta? O c’è un’altra lettura?

La necessità era quella di istituzionalizzarsi per accreditarsi nel gioco democratico, per cui l’accortezza – almeno di facciata – era quella di darsi un tono più pacato. Il tentativo più marcato in questo senso arrivò da parte della segreteria di Arturo Michelini, dalla metà degli anni '50 alla fine degli anni '60, cercando di inserire nell’agone democratico un partito che nasceva come neofascista. Per rispondere più puntualmente alla domanda, direi che il tentativo fu quello di reprimere e di contenere le spinte più reazionarie dell’ambiente sin da subito; tuttavia, il cordone non fu mai reciso totalmente, anche perché molti di quelli che transitarono nelle realtà più estreme cercarono di mantenere un rapporto diretto con il partito. Prova ne fu il rientro di Pino Rauti e di molti dirigenti del Centro Studi Ordine Nuovo tra le fila del Msi nel 1969.

E cosa accadeva negli ambienti di destra al di fuori dell’ Msi? Ad esempio, qual era la collocazione nel contesto della Guerra fredda?

Circoscrivo la risposta agli ambienti che ho trattato nel libro, così da non prendere la libertà di interpretare in modo univoco gli atteggiamenti di gruppi diversi. Per quanto riguarda il Cson, il Centro Studi Ordine Nuovo, le influenze culturali di Evola di critica del mondo moderno portarono al rifiuto totale del contesto contingente. Secondo le speculazioni filosofiche di Evola, infatti, la guerra fredda e la contrapposizione polarizzata tra Usa e Urss altro non era che la manifestazione più lampante della decadenza moderna, in cui due modelli che si ritenevano essere agli opposti, risultavano essere due facce della stessa medaglia. Tuttavia, il Cson non riuscì mai davvero a defilarsi dal contesto della guerra fredda, manifestando spesso la propria avversità al contesto moderno in associazione alla lotta al comunismo. Per questo motivo, il Centro Studi ordine Nuovo non uscì mai definitivamente né dalla polarizzazione dovuta alla guerra fredda, né dalla logica di contrapposizione destra-sinistra. Il pensiero di Freda a riguardo riparte dalle speculazioni di Evola ma, nel suo libro “La disintegrazione del sistema” del 1969, paventerà la seppur remota ipotesi di unire gli sforzi di estremismi di segno opposto per sovvertire lo Stato e per sostituirlo con uno ideale, che poca ha a che fare con gli scontri ideologici della guerra fredda e del contesto polarizzato.

Quali erano in quegli anni le influenze culturali dell’estrema destra? 

Le influenze culturali erano molteplici, tuttavia una figura che catalizzò gran parte dell’attenzione fu senza dubbio il filosofo Julius Evola. La sua fu un’influenza esistenziale e non solamente filosofica, di lui colpivano le vicende biografiche e i propri legami con il nazismo, non solo le speculazioni filosofiche. Culturalmente l’ambiente vicino al Msi risentì molto della sua presenza, fu su spinta dei giovani più vicini a lui che nacque il Centro Studi Ordine Nuovo a metà degli anni '50 infatti. Accanto a lui evidenzierei alcuni nomi, come René Guénon e Robert Brasillach, ma anche scritti prodotti da gerarchi nazisti o lo stesso Mein Kampf di Hitler, tanto per citare le più importanti nel settore giovanile. A queste affiancherei le radici culturali dei dirigenti, più vicini a una cultura risorgimentale, rivisitata in chiave di nazionalismo.

E veniamo alla sua interessantissima intervista a Freda. Che volutamente non affronta la strage di Piazza Fontana e quindi non tocca le sue vicende giudiziarie. Nell’agosto 1969 Freda scrive il già citato saggio dal titolo: “La disintegrazione del sistema”. Cosa intendeva per “disintegrazione”? 

Per “disintegrazione del sistema” si intende, nel libro di Freda, togliere l’integrazione tra le parti complementari del sistema democratico e borghese per portare al collasso dello stesso. Non si tratta semplicemente di distruggere il sistema, quindi affrontando frontalmente uno scontro contro di esso, quanto piuttosto di arrivare a dissolvere quei meccanismi che tengono il sistema unito, su tutte la privatizzazione dei mezzi di produzione e la funzione socializzatrice del denaro. Per puntare alla demolizione dello stato borghese, secondo Freda, bisogna puntare al cuore del motore che lo tiene in piedi. Il crollo e quindi la distruzione fisica saranno solo le conseguenze di questa azione.

( 2 luglio 2024 )

Lutto nella letteratura

La scrittura e la libertà contro la tirannia

Ismail Kadare è stato il maggior scrittore albanese più volte candidato al Nobel, scomparso il primo luglio nella sua casa parigina del Quartiere Latino di Parigi a 88 anni

  • Email Icon
  • Facebook Icon
  • Twitter Icon
  • Pinterest Icon
Commenta Icona

Libri

L’eterno dire della Bellezza

Il nostro patrimonio culturale è come un grande libro in cui ogni pagina racconta storie lontane, intrecci, scambi. Questo è ciò che ci rende ricchi

  • Email Icon
  • Facebook Icon
  • Twitter Icon
  • Pinterest Icon
Commenta Icona

Libri

Le radici culturali dell’estrema destra

A colloquio con lo storico Giacomo Gaiotti, autore di un saggio che esplora i rapporti tra anima istituzionale e anima reazionaria

  • Email Icon
  • Facebook Icon
  • Twitter Icon
  • Pinterest Icon
Commenta Icona

FOTO GALLERY

Immagine Foto Gallery

© 2001 - 2024 Conquiste del Lavoro - Tutti i diritti riservati - Via Po, 22 - 00198 Roma - C.F. 05558260583 - P.IVA 01413871003

E-mail: conquiste@cqdl.it - E-mail PEC: conquistedellavorosrl@postecert.it