Sabato 21 dicembre 2024, ore 13:12

Mostre

La Maddalena di Artemisia torna a Napoli

di STELLA FANELLI

Piccole sfere, luminose come il destino che hanno avuto, le perle sono il simbolo di un bene effimero, di una bellezza vuota, insincera, parlano il linguaggio del lusso e della vanità. Dalla fine del Duecento fanno la loro comparsa sui mercati ‘preziosi’ d’Italia e Europa, entrano nei corredi di nobildonne e fanciulle di grandi speranze, sono l’oggetto del desiderio di cortigiane. È tuttavia il Cinquecento ‘il secolo di perla’: dall’America si riversano, rare e preziose, perle sull’Occidente! Ma per conquistarne il significato profondo dobbiamo interrogare la letteratura, il mito, le fedi: nella sua Naturalis Historia Plinio spiegava che le perle nascevano dentro una conchiglia ..lussuriosa, che si apriva al cielo per ricevere gocce di rugiada, dunque sono il frutto di un impulso erotico invincibile e chi le possiede e indossa ostenta il vizio e ardenti voglie. Disprezzate da Tertulliano che le considera un difetto, una ‘verru ca’ marina, nella Bibbia sono invece assimilate a Cristo nelle cui parabole sono scelte per rappresentare ciò che non dobbiamo, di noi e della verità concedere e svendere a chi è senza meriti. Per Ildegarda di Bingen, che è la prima donna a scrivere una enciclopedia degli elementi naturali, le perle curano o avvelenano, sono bene e male. Spinta da venti innamorati giunge infine nel Rinascimento, la Venere di Botticelli come una perla e la Storia si infiamma di sensualità.

Della moda del Cinquecento è la protagonista e ha l’o nere di rivelare lo status della dama che esibisce fili di perle che scendono su abiti sontuosi, illuminano le acconciature, intersecate tra i capelli sottolineando le differenze sociali e caricando di significato la castità o la malizia delle donne. In particolare la pittura rinascimentale ama prediligere come soggetto Cleopatra che scioglie in un bicchiere d’aceto il suo orecchino di perla. L’ultima sovrana d’Egitto vuole sfidare i sentimenti di Marco Antonio provandogli che la sua forza è grande quanto l’avventatezza di dissolvere tutta la sua ricchezza per l’ambizione e l’amore. La perla è indossata da quelle donne che vogliono esprimere con la voluttà tutto il potere con cui sanno provocare gli eventi. Indossare perle è esibire l’apparte nenza al peccato per questo Artemisia che aveva, dipingendo e trasgredendo i limiti imposti dal suo sesso, sfidato la morale di quel Cinquecento dipinge più volte donne che il pregiudizio e la calunnia avevano macchiato: la biblica Susanna, la violata Lucrezia, le audaci Dalila e Giuditta, più volte proprio Cleopatra nel cui volto in un quadro del 1611, al tempo dunque che seguì la violenza subita dal Tassi, ritrae se stessa e Maddalena. È significativo che nella Maddalena Sursock dipinta a Napoli tra il 1630 e il 1635 (periodo in cui dipinge anche l’ultima Cleopatra) Artemisia ritragga una donna facendone emergere la figura da un fondo scuro, vedendola dal basso così che l’occhio di chi la guarda vada verso l’alto e il divino dove si erge la santa che non ha occhi pieni di lacrime ma esprime, con più potente efficacia un travaglio interiore e sofferte emozioni, con il gesto di strapparsi di dosso la collana di perle che vale come rinuncia alla vanità di cui quel gioiello nei secoli ha conquistato la fama di rappresentare. Artemisia ha scelto come soggetto una donna vestita nei toni del giallo, come una pubblica peccatrice quindi, che però forse folgorata dalla conversione decide di rifiutare quanto connotava la sua femminilità lasciva. In quest’opera è evidente la lezione caravaggesca ma la luce viene da ciò che non è la Grazia ma il Peccato. Artemisia ritrae una donna colta nell’attimo della renovatio eppure conserva un ruolo di protagonismo per il simbolo della colpa, alla luce delle perle. Come Roland Barthes possiamo affermare che è qui “la forza dei quadri della Gentileschi: nel capovolgimento brusco dei ruoli. Una nuova ideologia vi si sovrappone, che noi moderni leggiamo chiaramente: la rivendicazione femminile”. Questo quadro possiede l’immenso valore che hanno tutti i documenti che attestano la visione del mondo e di se stessi di un artista e fino al 19 gennaio del 2025, dopo un lungo restauro che ha voluto curare le ‘ferite’ della tela seguite al bombardamento del 4 agosto 2020 di Beirut città nella quale era di proprietà di collezionisti libanesi, è tornato a Napoli dove la pittrice romana si trasferisce potendo avvalersi dell’amicizia e sostegno con Fernando Afán de Rivera, Duca di Alcalá e Viceré di Napoli, che nel 1629 ha già acquistato tre suoi dipinti ed è ora esposto nel Complesso Monumentale di Santa Chiara risplendendo in tutta la sua bellezza. Col patrocinio della Regione Campania e del Comune di Napoli, la curatela di Costantino D’Orazio, la mostra è realizzata grazie alla collaborazione tra la Provincia Napoletana del Ss.

Cuore di Gesù dell’Ordine dei Frati Minori, il FEC (Fondo Edifici di Culto), Agape e Arthemisia.

La città che Artemisia non abbandonerà mai fino alla morte sopraggiunta nel 1653 ora riaccoglie, entusiasta, un capolavoro dal quale dobbiamo imparare l’osti natissima fede di una donna e di un’artista che ha compiuto un’o perazione culturale straordinariamente audace: lasciare al suo tempo la possibilità e la responsabilità di cambiare, attribuendo al peccato non colpe di cui svestirci ma anche luce con cui illuminare quello che di noi, del nostro destino, della Storia non conosciamo ma merita il suo posto nel mondo.

 

( 9 ottobre 2024 )

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