Venerdì 22 novembre 2024, ore 8:14

Intervista 

Partecipazione, idea giusta 

C'è tempo e spazio politico per discutere in Italia di riforme istituzionali e di nuova legge elettorale in un contesto di crisi economica, di guerra in Ucraina e con una emergenza sanitaria ancora non completamente alle spalle ?
Posta così la domanda, come trasversalmente a seconda della congiuntura politica la pongono molti dirigenti di partito, la risposta negativa sembra scontata. Ma occorre un passaggio ulteriore. E ci facciamo aiutare da Ferruccio De Bortoli, giornalista e saggista, presidente della Fondazione Corriere della Sera. Per due volte direttore del quotidiano di Via Solferino, De Bortoli è stato a lungo anche alla guida del Sole 24 Ore.
Direttore, che rapporto c'è tra riforme e crescita economica?
Una considerazione preliminare: noi abbiamo disancorato del tutto dal nostro dibattito pubblico le riforme istituzionali, che rappresentano una precondizione dei sussidi e dei prestiti ottenuti con il Pnrr. L'Europa ci ha chiesto una serie di riforme perché ha un interesse preciso che l'Italia aumenti il proprio prodotto potenziale, cioè la capacità di crescere. Un'Italia che non cresce è un problema per tutta l'Europa. L'Italia che rischia di non essere del tutto accountable dal punto di vista del debito - tra l'altro bisognerà vedere come si svilupperà in futuro il nuovo patto di stabilità e di crescita - rischia di appesantire tutto il percorso di crescita dell'Europa, soprattutto per quanto riguarda alcuni traguardi come la transizione digitale e la transizione energetica. Eppure è come se avessimo considerato i 200 miliardi del Pnrr come una sorta di conto corrente di cui avevamo bene o male la disponibilità in quanto membri fondatori dell'Unione europea. In realtà sussidi e prestiti sono stati dati appunto a patto che l'Italia faccia alcune riforme istituzionali che aumentino la produttività del sistema e il suo valore aggiunto. Un aumento di cui beneficerebbero salari e stipendi, molto più bassi rispetto alla media europea.
Qual è tra quelle legate al Pnrr una riforma particolarmente significativa?
Penso alla riforma della giustizia. È difficile spiegare il legame con la produttività del sistema e quindi la capacità di crescita. Ma se la giustizia non funziona, l'economia ne soffre in termini competitivi. Noi siamo tra i Paesi che attraggono meno capitali dall'estero, cosa che almeno in linea di principio significa creazione di posti di lavoro: e una delle ragioni è proprio l'incertezza delle garanzie dei singoli, così come l'incertezza sulla durata dei processi civili e penali.
Ci saranno effetti economici sulle nostre tasche se non si metterà mano alle riforme istituzionali “altre” rispetto a quelle legate al Pnrr e che spesso sono descritte come lontane dagli interessi concreti degli italiani?
Su questo ho qualche dubbio. Intendiamoci: se le istituzioni funzionano meglio; se non abbiamo Governi che cambiano ogni anno; se non abbiamo un conflitto perenne, quasi endemico, tra politica e giustizia; se accade tutto questo è chiaro che il Paese ne riceve un vantaggio sotto tutti gli aspetti, a partire dalla qualità della sua democrazia e della sua cittadinanza. E consideriamo che l'economia è condizionata molto dalla psicologia, dalle attese, dalle paure, dai pregiudizi a volte inesistenti. Però io ritengo si sia sopravvalutato molto l'effetto economico delle riforme istituzionali come quelle proposte nel 2016. In quell'occasione ad esempio Confindustria si attendeva una crescita del pil del tutto ipotetica. Quell'aspetto fu a mio giudizio sottolineato troppo per spingere il voto del sì. Quando parliamo della Costituzione dobbiamo svincolarci dall'utilitarismo economico.
Nel corso degli ultimi anni si registra un costante declino della partecipazione elettorale: alle prime elezioni repubblicane per la Camera dei deputati partecipò al voto oltre il 92% della popolazione, alle elezioni del 2022 il 64%. Le riforme possono essere un antidoto o al contrario l'astensionismo può impattare negativamente sul cammino delle riforme?
Per prima cosa ci siamo dimenticati che il voto è un diritto-dovere e che fino a pochi anni fa l'astensione veniva persino sanzionata. Nella nostra Costituzione il cittadino è chiamato a partecipare alle scelte della comunità. Noi sbagliamo, e abbiamo sbagliato nei commenti successivi alle ultime consultazioni, nel giustificare troppo l'astensione. Dobbiamo invece dire: quando non voti sbagli, anche se legittimamente consideri l'offerta politica inadeguata. Dopodiché è chiaro che le riforme possono aumentare la partecipazione. Soprattutto se un impianto come il nostro è aggiornato tenendo conto della sua funzionalità e della sua efficienza, che va di pari passo con l'equità: e qui rilancio l'attenzione sulla riforma Cartabia della giustizia che ha introdotto l'idea che se il servizio è efficiente e breve può essere equo.
Nelle settimane scorse la ministra per le Riforme Casellati ha svolto una sorta di consultazioni con tutte le forze politiche sulle ipotesi di nuove forme di Governo. Tra presidenzialismo o semipresidenzialismo alla francese, sembra rafforzarsi l'ipotesi premierato. Quale è la strada più percorribile?
Secondo me l'elezione diretta del Presidente della Repubblica è sbagliata, anzi una assoluta sciagura per il nostro Paese. E non credo sia il modo per far partecipare meglio i cittadini. Noi, nell'instabilità politica della Prima e della Seconda Repubblica, abbiamo comunque avuto Capi di Stato che hanno saputo adattare il proprio ruolo alle esigenze e interpretare la garanzia e l'unità del Paese. Non possiamo rinunciare ad una figura costituzionale che interpreta l'unità del Paese. Io faticherei a pensare che un Presidente della Repubblica eletto direttamente possa il giorno dopo presentarsi e dire: io sono il garante della Costituzione e l'interprete di tutto il Paese. L'elezione indiretta ha i suoi pregi. La democrazia diretta, specialmente nell'illusione grillina, si è dimostrata una chimera. Penso che un premierato forte sia preferibile, ma sarebbe estremamente utile la sfiducia costruttiva come nel sistema tedesco: tu puoi sfiduciare il governo ma devi avere una soluzione alternativa. Ma a me sta molto a cuore un'altra riforma costituzionale, che io non farei.
Quale?
L'articolo 67 della Carta: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Una grande idea: i costituenti erano saggi e previdenti. A maggior ragione se si va avanti con l'autonomia differenziata, gli eletti al Senato e alla Camera sono i rappresentanti dell'interesse generale, non del loro collegio elettorale. Possono convivere le due forme di rappresentanza in maniera intelligente, altrimenti alla fine l'eletto è una semplice protuberanza politica di una comunità di interessi. L'interesse nazionale non è la sommatoria degli interessi locali.
Quale legge elettorale si addice maggiormente alla realtà italiana?
La legge che funziona meglio tra quelle approvate dopo il referendum Segni all'inizio degli anni '90 è quella a doppio turno dei sindaci, che ha creato stabilità. Anche se i secondi mandati sono quasi sempre stati inferiori in termini di qualità. Va detto che il doppio turno favorisce quasi sempre il centrosinistra, cioè l'offerta politica più strutturata, più distribuita sul territorio. D'altro lato una legge come quella che abbiamo, il Rosatellum, difficilmente potrà essere cambiata se l'opposizione continuerà ad essere divisa: perché è una sorta di assicurazione sulla vita per la coalizione di centrodestra.
La prima riforma istituzionale a cui il governo Meloni sta mettendo mano riguarda l'autonomia differenziata. Quali sono i rischi e quali le opportunità?
Il ddl approvato dà attuazione a quanto previsto dalla riforma costituzionale del 2011, il Titolo V, a mio giudizio la più colossale riforma autogoal del centrosinistra nell'inseguimento dell'idea federalista della Lega. Dobbiamo uscire da un equivoco: se si tratta semplicemente di trasferire ogni spesa storica alle Regioni che sono più efficienti dello Stato a gestire alcune competenze e garantire ai cittadini con le stesse risorse servizi di maggiore qualità, beh non ci sarebbe nulla da dire. Certo, questo crea problema di differenziazione rispetto alle Regioni che non hanno chiesto l'autonomia differenziata e faticano anzi ad avere livelli di prestazioni come quelli delle regioni più ricche. Ecco che la fissazione dei Lep porta con sé un grande interrogativo al quale non è stata data finora risposta nemmeno dai promotori. Io non penso che le altre Regioni di fronte al trasferimento di risorse pubbliche e fiscali alle regioni maggiori resterebbero senza dire nulla: è chiaro che vorrebbero come previsto dalla legge avere servizi migliori, servizi migliori che non riescono a garantire con le risorse a loro disposizione. Forse, indotti da una più efficiente competizione tra Regioni, sarebbero stimolati a fare meglio, ma mi domando perché non l'abbiano fatto finora. Pur non volendo nuove competenze, non le 23 competenze della Regione Lombardia o di quella Veneto, è chiaro che non è accettabile che si creino ulteriori diseguaglianze tra regioni ricche e povere, tra nord e sud. Queste regioni saranno quindi indotte a chiedere di più. A questo punto la fissazione dei livelli essenziali di prestazione avrà un costo. Prima di andare a avanti con la riforma io vorrei sapere qual è questo costo. Perché questo costo poi non potremo certamente finanzialo in deficit e in debito. Ma con entrate di altra natura. E chi le paga queste entrate di altra natura ? A meno che l'autonomia differenziata non si riduca ad un trasferimento di risorse statali a regioni più efficienti per fare in modo che con la stessa spesa pubblica si diano servizi maggiori. Ma non credo che questo sia l'intendimento di chi propone la riforma.
Direttore, nel sommario delle riforme istituzionali necessarie al Paese può essere inserito anche il tema della partecipazione dei lavoratori, rilanciato in questi giorni dalla Cisl?
Io penso che questa idea della Cisl sia molto interessante. Noi stiamo parlando di sostenibilità, di welfare aziendale, di aziende che devono essere attente alla socialità, alla governance; non soltanto alla condizione economica dei propri dipendenti ma anche alla loro qualità di cittadini. E queste aziende saranno giudicate sempre di più da questi fattori.
Che cosa è avvenuto di particolarmente importante negli ultimi tempi? Intanto si discute molto della cosiddetta shareholders economy, cioè sul fatto che le imprese debbano semplicemente distribuire i dividendi agli azionisti. Ma tutto il discorso sui fattori legati alla sostenibilità passa attraverso l'idea che gli stakeholders classici non siano più soltanto i dipendenti, i clienti; ma siano tutti i cittadini. E allora a maggior ragione è interesse delle aziende - anche dal punto di vista del proprio bilancio sociale, della propria capacità di dimostrarsi sostenibile - coinvolgere anche negli organi direttivi i rappresentanti dei lavoratori. Mentre nel '900 l'idea tedesca di far partecipare i lavoratori agli organi consultivi e anche di gestione diretta delle imprese rispondeva ad un rapporto tra classi, alla divisione tra capitale e lavoro; oggi nella transizione ecologica e digitale risponde anche ad un'idea di rapporto diverso delle aziende con la comunità, rapporto che può essere mediato dai propri dipendenti lavoratori che sono anche soggetti decidenti, ovviamente nelle condizioni che si riterrà opportuni, di quelle che sono le scelte soprattutto di sostenibilità.
Giampiero Guadagni

( 14 marzo 2023 )

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