Il fenomeno delle grandi dimissioni, partito negli Stati Uniti già nel 2021, è arrivato anche in Italia, complice, naturalmente, la grande crescita economica e occupazione dell'anno passato. Ma non solo. I dati parlano chiaro. Nei primi nove mesi del 2022, sono state 1,6 milioni le dimissioni registrate, ossia il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021 (dati del ministero del Lavoro). Tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro le dimissioni costituiscono, dopo la scadenza dei contratti a termine, la quota più alta. Ma le cifre indicano come risalga anche il numero dei licenziamenti, dopo la fine del blocco deciso con la crisi pandemica: tra gennaio e settembre 2022, infatti, sono stati circa 557mila i rapporti interrotti per decisione del datore di lavoro contro i 379mila nei primi nove mesi del 2021, con un aumento del 47% rispetto ad un periodo in cui era però in vigore il blocco. Guardando il solo terzo trimestre dell'anno scorso, le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6% (pari a +35mila) sul terzo trimestre 2021. I dati, come detto, non devono stupire. Il trend, infatti, è coerente con un mercato del lavoro in crescita (il rallentamento è arrivato solo negli ultimi mesi dell'anno) e, dunque, con maggiori opportunità, soprattutto per i lavoratori qualificati. A spingere le dimissioni, secondo gli osservatori, è stata da un lato la ripresa occupazionale, dopo la caduta determinata dal picco della crisi Covid, con maggiore mobilità e opportunità anche per chi vuole cambiare lavoro, soprattutto per i profili tecnici e specializzati. Dall'altro lato, al contrario, proprio la crisi e la necessità o il desiderio di un diverso equilibrio tra vita privata e professionale possono aver spinto a scegliere di dire addio al proprio posto di lavoro. Ma non tutti i lavoratori possono scegliere. Come ricorda il segretario confederale Cisl, Giulio Romani, “le imprese in cui si
sviluppa benessere lavorativo e qualità del lavoro risulterebbero essere una minoranza, non casualmente le stesse, per classe dimensionale (da 10 a 250 dipendenti) e modelli organizzativi, in cui la produttività risulta particolarmente elevata, la più alta d'Europa”.
“La platea delle imprese italiane - aggiunge il dirigente sindacale è però occupata per circa il 95% da micro-imprese, al di sotto dei 10 dipendenti. Sono, per classe dimensionale, le imprese con la minore produttività del Paese (tra le più basse in Europa), quelle all'interno delle quali mediamente si fatica di più a sviluppare forme di welfare integrativo, non si pratica la contrattazione aziendale e non si costruiscono sistemi premianti trasparenti, si eroga poca formazione, si genera minore conciliazione vita-lavoro, si intravedono le minori prospettive di crescita economica e professionali”. La sfida, dunque, spiega Romani, è quella di “superare i gap strutturali della nostra economia, rivedendo, anche attraverso un maggior coinvolgimento partecipativo dei lavoratori nell'organizzazione delle imprese, i modelli produttivi, aziendali e lavorativi che, oggi più che mai, si rivelano non sufficientemente orientati alla qualità” .
Ilaria Storti