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Previdenza

Il Covid “aggiusta” i conti Inps Meno 11,9 miliardi fino al 2029

I conti dell’Inps migliorano dopo anni. Ma non è una buona notizia; almeno non del tutto. I risparmi non arrivano infatti da un aumento del tasso occupazionale o da riforme strutturali ma sono conseguenza della pandemia. Nel 2020, secondo il nono Rapporto di Itinerari previdenziali, l’Inps ha risparmiato in spesa per pensioni 1,1 miliardi a causa dell’eccesso di mortalità per Covid. Gli effetti si vedranno a lungo. Fino al 2029, secondo il rapporto, si avrà una minore spesa di 11,9 miliardi. “Il 96,3% dell’eccesso di mortalità registrato nel 2020 - si legge nel rapporto - ha riguardato persone con età uguale o superiore a 65 anni, per la quasi totalità pensionate”. Considerando per compensazione l’erogazione delle nuove reversibilità, si quantifica in 1,11 miliardi il risparmio, “tristemente prodotto nel 2020 da dal Covid a favore dell’Inps”, e in circa 11,9 miliardi, come detto, la minor spesa nel decennio.
Il Covid ha inciso, ma per motivi diversi, anche sulle prestazioni totalmente assistenziali: pensioni per invalidi civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali e pensioni di guerra. Queste prestazioni sono 4.116.992, quasi 60mila in meno rispetto al 2019: calo cui hanno concorso sia la riduzione fisiologica delle pensioni di guerra sia quella delle invalidità, a propria volta attribuibile ai rallentamenti burocratico-amministrativi causati da Covid-19. I pensionati titolari di queste prestazioni sono 3.709.993, al netto delle “duplicazioni” relative a quanti ricevono più tipologie di prestazioni, per un costo complessivo di 23,878 miliardi, valore salito costantemente negli ultimi 9 anni. Sommando a questi beneficiari, i titolari di altre prestazioni assistenziali - sempre al netto delle duplicazioni e non considerando la quattordicesima mensilità - il numero di pensionati totalmente o parzialmente assistiti (beneficiari delle “altre prestazioni”) è di 7.686.501, vale a dire il 47,92% dei 16.041.202 pensionati totali. 
“Non sembra rispecchiare le reali condizioni socio-economiche del Paese un dato che vede quasi la metà dei pensionati italiani assistiti, del tutto o in parte dallo Stato - commenta Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali -. Così come non pare credibile che la maggior parte di queste persone non sia riuscita in 67 anni di vita a versare quei 15/17 anni di contribuzione regolare che avrebbe consentito di raggiungere la pensione minima. O, ancora, il fatto che il 40,7% delle nuove pensioni liquidate dall’Inps nel 2020, esclusi i dipendenti pubblici, siano prestazioni totalmente assistite, tra gli anni 2014-2020 addirittura incrementate dell’8,8%”.
A differenza delle pensioni finanziate da imposte e contributi, questi trattamenti, sottolinea il rapporto, “gravano sulla fiscalità generale senza neppure essere soggette a imposizione fiscale”.
Altro dato significativo che emerge dal rapporto è quello relativo alle pensioni Ivs (invalidità, vecchiaia e superstiti) pagate da oltre 40 anni: sono oltre 476mila. Circa 423mila sono le prestazioni che riguardano il settore pubblico e 53.274 quelle riguardanti il settore privato. Tra queste oltre 217mila sono assegni di invalidità o inabilità previdenziale, mentre quelle ai superstiti sono oltre 183mila nel complesso (168.403 quelle del settore privato con un’età media alla decorrenza di 38,29 anni). Le pensioni di vecchiaia vigenti da oltre 40 anni sono 53.634 nel settore privato (con un’età media alla decorrenza di 53,76 anni anni) e 21.104 nel settore pubblico. La durata delle pensioni più remote ancora oggi vigenti è in media di quasi 46 anni nel settore privato - si legge nel Rapporto - e di 44 per il pubblico, “mentre prestazioni corrette sotto il profilo attuariale non dovrebbero superare i 20/25 anni”. 
Alla luce di questi ultimi dati e dell’impatto della pandemia, secondo Brambilla, “quota 102 per l'accesso alla pensione (almeno 64 anni il di età e 38 di contributi) prevista per quest'anno potrebbe essere mantenuta se si agganciasse all’aspettativa di vita e si utilizzasse insieme interamente il calcolo contributivo”. 
Il presidente del Centro ricerche Itinerari previdenziali segnala come dal 2022 il 90% delle persone in uscita dal lavoro vada in pensione con il calcolo misto (retributivo fino al 1995, contributivo dal 1996) e come questi abbiano in media il 70% dell’importo della pensione calcolato con il contributivo. “Chi deciderà di uscire a 64 anni - spiega ancora - dovrà tramutare quel 30% in contributivo”. Secondo Brambilla il coefficiente di riposizionamento “è del 3% l’anno e con tre anni di anticipo si perderebbe circa il 10% dell’importo che si avrebbe uscendo a 67 anni”.
Ilaria Storti

( 15 febbraio 2022 )

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