Potrebbe superare i 1.000 morti il bilancio delle violenze nello Stato di Rakhine, in Myanmar, per la maggior parte contro la minoranza Rohingya. Lo ha dichiarato ieri il relatore speciale delle Nazioni unite per i diritti umani in Myanmar, Yanghee Lee. Secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e l'Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), oltre 270mila persone, soprattutto Rohingya, sono fuggite in Bangladesh dal 25 agosto, dopo gli attacchi contro postazioni della polizia da parte dei ribelli dell'Arakan Rohingya Salvation Army che hanno innescato una dura reazione delle forze di sicurezza. Preoccupato il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, che ha espresso il timore che queste violenze possano trasformarsi in una pulizia etnica. Solo un paio di giorni fa, la premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi aveva parlato di "disinformazione" a proposito della crisi dei Rohingya. Una dichiarazione che Amnesty International ha definito “inconcepibile”.
C’è perfino chi è arrivato a chiedere al Comitato del Nobel di revocare alla Lady il prestigioso riconoscimento conferitole nel 1991. Revoca comunque impossibile - va detto - dal momento che l’opzione non è contemplata né nello statuto della Fondazione, né nel testamento di Alfred Nobel. Ma proprio un altro premio Nobel per la Pace, dopo le pesanti critiche rivolte nei giorni scorsi alla leader birmana dall’attivista pakistana e musulmana, Malala Yousafzai, ha deciso di prendere posizione. “Sono ora anziano, decrepito e formalmente in pensione, ma ho deciso di rompere il mio impegno a non intervenire nella vita pubblica a causa della profonda tristezza che provo”, scrive in una lettera aperta indirizzata ad Aung San Suu Kyi l’arcivescovo sudafricano 85enne, Desmond Tutu che si era battuto contro l’apartheid. “Il suo coinvolgimento nella vita pubblica ha allentato le nostre preoccupazioni sulla violenza perpetrata contro i Rohingya. Ma quello che alcuni chiamano ‘pulizia etnica’ e altri ‘un lento genocidio’ prosegue, e di recente è accelerato. E’ incongruo che un simbolo di rettitudine guidi un tale paese. Se il prezzo politico della sua salita all’ufficio più alto del Myanmar è il suo silenzio, il prezzo è di certo troppo cospicuo. Un paese che non è in pace con se stesso, che non riesca a riconoscere la dignità e il valore di tutta la sua gente, non è un paese libero", conclude.
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