Il Regno Unito ricomincia a vedere qualche segnale di ripresa dopo due anni di indicatori negativi in tutti i settori. Il premier conservatore, Rishi Sunak, resta fermo nell'indicazione - formulata fin da dicembre - secondo cui le prossime elezioni politiche britanniche non saranno convocate prima della seconda metà di quest'anno. Il laburista Keir Starmer Starmer ha accusato ancora una volta il primo ministro di non riuscire più a controllare neppure il suo partito e d'aver fallito sia sul fronte economico sia sulla promessa di una stretta post Brexit sull'immigrazione illegale. Attacchi ai quali Sunak ha replicato facendo leva sul dato positivo pubblicato giusto ieri sull'inflazione, scesa nel Regno al 3,4%, il livello più basso da 2 anni e mezzo, quindi persino meglio del suo obiettivo di dimezzarla entro la metà del 2024 rispetto all'impennata dell'anno scorso.
Ma è solo un inizio. Londra ha chiuso il 2023 in calo e il quadro è andato peggiorando. Oltre alla congiuntura internazionale, pesano le scelte dei governi e iniziano a vedersi le conseguenze della Brexit. Il Regno Unito è ancora in recessione. E se molti Paesi, frenati dall'inflazione, dovranno fare i conti quest'anno con un rallentamento, Londra dovrebbe essere l'unica economia avanzata che ha chiuso il 2023 con il Pil in calo. I problemi, quindi, vanno oltre i temi comuni a gran parte dell'Occidente. Come sempre, però, avere certezze è difficile, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che la recessione sia il risultato di una combinazione di fattori - tra i quali la Brexit. Secondo il Fondo monetario Internazionale, il Pil britannico dovrebbe diminuire dello 0,6%. Più che l'entità della recessione, preoccupa la direzione intrapresa dal Paese.
Lo scorso ottobre, il Fmi aveva infatti ipotizzato una crescita dello 0,3%. È esattamente il contrario di quello che è successo alla maggior parte delle economie avanzate, che negli stessi mesi hanno visto migliorare le stime. L'Italia, ad esempio, è passata da un'ipotesi di recessione (-0,2%) a una di crescita, seppur debole (+0,6%). Nel 2022, sempre il Fondo monetario internazionale aveva fortemente criticato la manovra economica varata dall'allora Premier Liz Truss, caratterizzata da una riduzione delle tasse per i redditi alti e capace di innescare un pesante calo della sterlina. Truss aveva prima rimosso il responsabile dell'Economia, poi si era dimessa, cedendo il posto a Rishi Sunak. Il nuovo Premier ha impresso quella che da molti è stata definita "una inversione a U", con una legge di bilancio fatta di tagli alla spesa pubblica e aumento della pressione fiscale.
La zoppicante politica economica si è quindi sommata ad altri fattori: inflazione, caro energia, sterlina debole, imprese e famiglie in difficoltà. A questi si sono aggiunte le conseguenze negative della Brexit. Infatti, secondo un'analisi di Bloomberg, la Brexit costerebbe 100 miliardi di sterline l'anno. L'uscita dall'Ue avrebbe quindi avuto un impatto pari al 4% sull'economia britannica. L'addio all'Unione, hanno sottolineato gli economisti Ana Andrade e Dan Hanson, "è stato un atto di autolesionismo economico", con un impatto negativo persino più rapido del previsto. Nel periodo di transizione, molti investimenti sono stati bloccati in attesa di avere un quadro più chiaro. Sono ripartiti, ma Londra ha comunque accusato il colpo. Secondo Jonathan Haskel, membro del comitato di politica monetaria della Bank of England, il rallentamento degli investimenti è costato, dal referendum del 2016 a oggi, 29 miliardi di sterline, ossia circa mille sterline per ogni famiglia.
La stessa Bank of England, confrontando le proiezioni degli investimenti prima e dopo la Brexit, ha affermato che, nel 2026, ci sarà una differenza (in negativo) pari al 3,2% del Pil. Che la Brexit non sia stata una buona idea inizia a pensarlo anche la popolazione che, tramite il referendum, aveva sancito l'addio. Lo confermano due sondaggi di Savanta Poll pubblicati dal quotidiano The Independent. Due terzi dei britannici pensa che lasciare l'Ue abbia peggiorato la situazione economica, mentre solo il 13% crede che le cose siano migliorate. Non solo: due cittadini del Regno Unito su tre gradirebbero votare di nuovo. Il 22% vorrebbe farlo subito, un altro 24% nei prossimi cinque anni e l'11% tra sei-dieci anni. Solo un intervistato su quattro si opporrebbe.
Difficile, per non dire impossibile, pensare a un referendum. È evidente però una crescita del malcontento, che potrebbe saldarsi con la recessione, la complicata manovra del governo e un potere d'acquisto in calo. Una situazione tutt'altro che rosea, che ha già fatto intravedere possibili conseguenze: a febbraio i sindacati hanno indetto il più grande sciopero nella storia del Sistema Sanitario Nazionale (Nhs). Infermieri, autisti di ambulanze e personale paramedico sono scesi in piazza per chiedere un deciso aumento salariale, che, però, per il governo non è fattibile. Ma è solo una delle categorie che ha visto peggiorare la propria situazione con la Brexit. Ora i primi, flebili segnali positivi.
Rodolfo Ricci