La rivoluzione digitale fa bene al lavoro. Contro la vulgata neoluddista che paventa la scomparsa dell’umano dall’orizzonte della produzione scendono in campo Censis e Confcooperative. Le tecnologie digitali che stanno alla base di Industria 4.0 e che lentamente stanno ”colonizzando” l’intera economia imponendo un nuovo paradigma, non solo non distruggono il lavoro ma ne creano di nuovo, spiega un focus realizzato dal centro studi fondato da Giuseppe De Rita e la centrale cooperativa guidata da Maurizio Gardini.
I numeri: negli ultimi cinque anni gli occupati sono cresciuti del 52% nel segmento più qualificato dell’Ict, quello nel quale si affermano le nuove professionalità richieste dal mercato: in testa il developer, lo sviluppatore di applicazioni web, che in un anno, tra il 2015 ed il 2016, ha visto salire le richieste del 23,8%; segue staccato l’analista di sistemi informativi.
Il problema è lo skills mismatch, il divario tra le competenze richieste e quelle effettivamente disponibili: è questo buco che impedisce l’allineamento tra domanda e offerta. In altri termini, le aziende che hanno ”fame” di figure professionali tech faticano terribilmente a saziarsi sul mercato del lavoro. L’esempio del developer torna utile pure in questo caso: ne mancano all’appello 26mila, parte cospicua delle 62mila offerte di lavoro rimaste senza copertura nel 2016. Ovvio che stiamo parlando di numeri relativamente piccoli (ma non piccoli in assoluto), trattandosi di un settore ancora giovane. Ma in un paese che - lo confermano anche i dati resi noti ieri dall’Istat - il tasso di occupazione, pur in crescita, resta bassissimo (siamo penultimi nell’Unione Europea) e i giovani vedono spesso come un miraggio il primo impiego, l’inefficienza del mercato del lavoro rappresenta una zavorra della quale liberarsi quanto prima. Per farlo c’è un solo modo, suggeriscono Censis e Confcooperative in linea con la maggioranza degli osservatori italiani ed internazionali: puntare sulla formazione. ”Le persone più qualificate saranno quelle che potranno cogliere le opportunità del 4.0 - sottolinea Gardini - Questo deve portarci ad un investimento straordinario in formazione e innovazione perché tutti siano in condizione di capitalizzare le opportunità. Siamo per un 4.0 dal volto umano, che non lasci indietro nessuno”. Non si può tuttavia ignorare qual è il punto di partenza, ragiona Gardini: ”In Italia solo l’8,3% dei lavoratori è impegnato in programmi di formazione permanente”, dunque siamo ”al di sotto della media europea che è del 10,8%”.
I numeri, ancora una volta, sembrano confermare la diagnosi. Oggi in Italia su 100 occupati appena 3,3 rientrano nelle professioni Ict e solo uno su 100 si può definire ”un professionista Ict ad elevata qualificazione”. E ciò nonostante la crescita che si è registrata negli ultimi sei anni: mentre l’occupazione complessiva restava stazionaria, le imprese digitali hanno creato 82mila nuovi posti di lavoro, allargando così del 12,2% il perimetro delle professioni Ict. Al cui interno peraltro il profilo più dinamico si è rivelato quello dello ”specialista” (+52%). Nello stesso arco di tempo è aumentato in parallelo il numero delle imprese digitali (+17,6%). Scorrendo i dati non si può non notare una tendenza di fondo: l’economia di Internet, come piace chiamarla ai comunicatori di Google, ha un potenziale espansivo in grado di trasformare profondamente la società. Il boom dell’e-commerce non stupisce, è senso comune. Lo stesso vale per il turismo, un mercato completamente rivoluzionato da marketplace sempre più integrati e destinato secondo Censis e Confocooperative a crescere ancora nei prossimi anni grazie alla leva tecnologica. Stupisce invece il modo repentino con cui giovani e famiglie hanno riorientato le loro scelte in materia di istruzione, premiando più che in passato le facoltà scientifiche (+ 2,8% le iscrizioni negli ultimi due anni accademici) e, al loro interno, soprattutto i corsi orientati al digitale (+ 6,8%). E stupisce ancor più la capacità di incidere su tendenze storicamente consolidate che hanno plasmato la geografia economica del paese. Non più il Sud al traino del Nord, ma all’opposto un Mezzogiorno che conosce una fioritura più rigogliosa rispetto alle regioni settentrionali. Campania, Sicilia, Puglia e Abruzzo che in termini di crescita staccano Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, nonostante sia sempre il Nord a dominare in termini di stock (più della metà delle imprese digitali ha sede qui). Chi l’avrebbe mai detto? Anche questa è una rivoluzione.