Chi ha tempo perda tempo. In Italia la via giudiziaria è diventata la prosecuzione della politica con altri mezzi. E la politica, quando si tratta di infrastrutture, specie a livello locale, ha fatto del rinvio - del perder tempo, appunto - una ragione di vita. Ieri, dopo che il Tar di Lecce ha annunciato il rinvio al 6 marzo della camera di consiglio sul ricorso Ilva, il gip del tribunale di Lecce ha accolto la richiesta della Procura di riaprire le indagini sull’iter autorizzativo della Tap. La magistratura si è mossa su impulso di otto sindaci che vorrebbero sottoporre l’infrastuttura ad una nuova Via, una nuova Valutazione di impatto ambientale. Le analogie con il caso Ilva balzano agli occhi. Anche nel caso dell’Ilva, infatti, si chiede di rimettere mano ad un documento, l’Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale, la cui eventuale modifica farebbe deragliare il percorso disegnato dal governo con il bando di gara vinto dagli indiani di Mittal. E come nel caso dell’Ilva gli oppositori della Tap - tra cui Michele Emiliano, che a modo suo dà prova di coerenza ripudiando entrambi i progetti - hanno scelto di battere la via giudiziaria per centrare il loro obiettivo. Che, come un anno fa, quando un’altra indagine, allora limitata al solo terminale di San Foca, naufragò nell’archiviazione, resta quello di impedire il completamento dell’opera. In questo modo la pipeline che dovrebbe collegare il mar Caspio alla Puglia, rinvigorendo con il gas azerbaigiano il nostro gracile mix energetico, si trova presa in ostaggio dalla santa alleanza tra ecologismo radicale e politica locale. E mentre la magistratura indaga il tempo passa.