Nell'immaginario collettivo il Medioevo è l'età d'elezione delle morti per avvelenamento. Beatrice del Bo con il suo ultimo saggio, Arsenico e altri veleni, una storia letale nel Medioevo, si mette sulle tracce del veleno lasciate sul suo cammino dentro la storia medievale. Ci sposteremo tra i manoscritti, le carte dei notai, le leggi municipali, le sentenze dei giudici, i diari personali, le agiografie, i carteggi, i trattati medici, le novelle, le cronache dei contemporanei e faremo esperienza di scoperte straordinarie quella per cui il toxicum era parte della quotidianità di una società che sceglieva di ricorrere al veleno per uccidere e, interrogando anche la letteratura, proprio messer Boccaccio nell'Introduzione alla prima giornata del Decameron paragonando gli effetti della peste a quelli del veleno ci dimostra quanta confidenza gli uomini avessero con i sintomi da avvelenamento. L'altro pregiudizio che questo libro ci aiuterà a disarmare è quello secondo cui furono in prevalenza le donne le crudeli omicide che ricorsero al veleno, al contrario leggeremo di potenti che impiegarono la venefica arma del delitto per eliminare antagonisti e oppositori. Nutrirono la misoginia già radicata antropologicamente nella costruzione del mondo antico e moderno le accuse alle avvelenatrici di intellettuali come Guicciardini, Sannazaro, Pontano e Hugo, Donizzetti, colpevoli di aver condannato ad esempio Lucrezia Borgia a essere spietata assassina e icona di perversione, bersaglio di una narrazione discriminante. Ma forse è in Grimilde dei fratelli Grimm che ritroviamo tutti gli stereotipi in cui restava imprigionata la femminilità: la regina della fiaba è vittima della vanitas e, immersa nel veleno,
porge all’ingenua Biancaneve la mela, il frutto che incarna dall’inizio dei tempi il peccato: la mela di Grimilde è la mela con cui Eva ha avvelenato tutta l’umanità. È l’arsenico il protagonista nero dell’età di mezzo, scoperto da Alberto Magno, abita con disinvoltura le botteghe degli speziali, degli artisti e la vita quotidiana di chi ha imparato a servirsene per colorare i capelli, depilare, dipingere come sanno bene Giorgione, Lotto e Bellini. Tutti conoscono la tossicità dell’elemento, Strabone è il primo ad avvertirci del suo potenziale criminale eppure inodore, insapore uccide vite come sa raccontarci Eco ne Il nome della rosa in cui nel 1327 in un monastero benedettino dell’Italia del nord trovano la morte i monaci che avevano anteposto all’urgenza della salvezza il desiderio di conoscenza avvelenati dall’arsenico di cui sono imbevute le pagine di un libro che spaventa la Chiesa e per cui è pronta ad uccidere. Era più facile di quanto immaginiamo imbattersi in sostanze venefiche: fiori, frutti, erbe (ricordiamo la machiavellica mandragola), funghi, insetti, rettili terrorizzavano l’uomo medievale ma più di tutto era l’amore, la malattia dell’animo per eccellenza a avvelenare se doloroso, infelice e non corrisposto le vite di uomini e donne del passato che hanno imparato a convivere con la paura e a curarla e a trovare parole per esprimerla.